«Ne pas laisser échapper les nuances». Analisi dei sensi nella Nausée.
a cura di Alessia Pellegrini
Una possibile declinazione del tema della matericità all’interno della Nausée consiste nell’analizzare il rapporto che Roquentin instaura con le cose che lo circondano a partire dalla loro percezione sensoriale. I sensi acquistano nell’opera un’importanza privilegiata e un ruolo fondamentale non soltanto all’interno del percorso conoscitivo del protagonista, ma anche nel rappresentare con grande efficacia espressiva i suoi più allucinati pensieri.
La dimensione della matericità interessa dunque due piani:
1) Il piano del Roquentin-attore, che svolge il suo percorso conoscitivo.
2) Il piano del Roquentin-narratore, che riporta tale percorso.
Nel corso della mia esposizione mi soffermerò su questo primo aspetto, vale a dire sul ruolo che i sensi ricoprono nel graduale “disvelamento” della gratuità del tutto.
L’accento che Sartre pone sulla percezione sensoriale ha alle spalle una tradizione filosofica che, a partire dal Saggio sull’intelletto umano di Locke (del 1690), mette in discussione il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Con l’empirismo, e in modo ancora più forte, con il sensismo che si sviluppa nel corso dell’Illuminismo francese, il corpo viene rivalutato come strumento conoscitivo peculiare, rigettando la nozione di “idee innate”, o di un intelletto puro del tutto svincolato dall’esperienza.
In questa nuova prospettiva gnoseologica, i sensi acquistano un’importanza primaria, in quanto permettono all’individuo non soltanto di entrare in contatto con il mondo esterno, ma perfino di autodefinirsi.
Possiamo a questo proposito citare il passo dell’Histoire Naturelle (1749) di Buffon, intitolato “Des sens en general”, “Sui sensi in generale”.
Qui assistiamo al risveglio del primo uomo al momento della creazione. Egli ha già la facoltà di sentire, ma è scevro da preconcetti e costruzioni a priori.
All’interno di questa “récit filosophique”, come Buffon stesso la definisce, la fonte di conoscenza non è più l’anima, ma sono appunto i sensi.
Il primo uomo fa esperienza tramite la vista, poi l’udito e l’olfatto.
Giunge infine la sensazione tattile, l’ultima e la più importante all’interno del graduale processo di autodeterminazione. E’ infatti la mano che permette all’individuo, che inizialmente si era considerato un tutt’uno con la sua sensazione, di percepirsi come “finito” ed esterno ad essa:
“…ma main me parut être alors le principal organe de mon existence”. Grazie al tatto egli percepisce i limiti della sua esistenza, che prima gli era parsa immensa.
Il rilievo dato ai sensi nella Nausée non può prescindere da queste fondamentali tappe del pensiero filosofico, ma parte da premesse ben diverse rispetto alla prospettiva empirista e sensista.
Sartre non si pone più nell’ottica di dare prestigio al corpo, svalutando l’anima, bensì in una prospettiva fenomenologica, che vuole dunque abolire definitivamente la distinzione tra una dimensione interiore e una esteriore.
La coscienza non è più dunque un “contenitore” che accoglie ciò che proviene dal di fuori, non esiste a priori, ma “si da” nel momento in cui entra in rapporto con l’esterno. Essa esiste quindi solo in quanto “intenzionalità”, movimento verso qualcosa.
Viene dunque meno l’accordo tra la percezione sensoriale dell’oggetto e la sua cognizione.
In altri termini, mentre un tempo i sensi erano uno strumento attraverso cui percepire le qualità di un oggetto, in modo da poterlo “riconoscere”, incasellandolo in una determinata categoria mentale, adesso la percezione sensoriale è fatta regredire a un contatto precognitivo. Questa tabula rasa gnoseologica è il punto di partenza per la ricerca filosofica di Sartre.
E’ in questa accezione che possiamo considerare i sensi come una fonte di conoscenza privilegiata: essi permettono di cogliere soltanto la dimensione fenomenologica delle cose, anticipando quindi la grande rivelazione che si avrà nella scena del giardino pubblico:
- “…les choses sont tout entières ce qu’elles paraissent -et derrier elles….il n’y a rien”. “le cose sono soltanto ciò che paiono e dietro di esse…. non c’è nulla”
Possiamo quindi affermare che questa verità “s’impone con un’evidenza che è fisiologica ancor prima che intellettuale”, come dice Gianfranco Rubino nella raccolta di studi “L’intellettuale e i segni. Saggi su Sartre e Barthes.”.
Possiamo trovare un esempio del mancato accordo tra percezione e cognizione subito all’inizio del diario di Roquentin:
- “Tout à l’heure, comme j’allais entrer dans ma chambre, je me suis arrêté net, parce que je sentais dans ma main un objet froid qui retenait mon attention par une sorte de personnalité.”
Aprendo la mano egli capisce che sta semplicemente tenendo la maniglia della porta. Ma l’accordo tra sensazione tattile del “freddo” e il concetto mentale di “maniglia” è saltato. L’oggetto è avvertito solo nelle sue qualità materiche, svincolato dalla sua funzione.
Un’altra scena molto significativa in tal senso è quella che precede il cosiddetto “cogito esistenzialista”, quando Roquentin decide di non scrivere più il libro sul marchese di Rollebon.
(5) “Je vois ma main, qui s’épanouit sur la table. Elle vit- c’est moi. Elle s’ouvre, les doigts se déploient et pointent. Elle est sur le dos. Elle me montre son ventre gras. Elle a l’air d’une bête à la renverse. Les doigts, ce sont les pattes. Je m’amuse à les fair remuer, très vite, comme les pattes d’un crabe qui est tombé sur le dos. Le crabe est mort: les pattes se recroquevillent, se ramènent sur le ventre de ma main. Je vois les ongles – la seule chose de moi qui ne vit pas. Et encore. Ma main se retourne, s’étale à plat ventre, elle m’offre à présent son dos. Un dos argenté, un peu brillant -on dirait un poisson, s’il n’y avait pas les poils roux à la naissance des phalanges. Je sens ma main. C’est moi, ces deux bêtes qui s’agitent au bout de mes bras. Ma main gratte une de ses pattes, avec l’ongle d’une autre patte; je sens son poids sur la table qui n’est pas moi. C’est long, long, cette impression de poids, ça ne passe pas. Il n’y a pas de raison pour que ça passe. A la longue, c’est intolérable… Je retire ma main, je la mets dans ma poche. Mais je sens tout de suite, à travers l’étoffe, la chaleur de ma cuisse. Aussitôt, je fais sauter ma main de ma poche; je la laisse pendre contre le dossier de la chaise. Maintenant, je sens son poids au bout de mon bras. Elle tire un peu, à pein, mollement, moelleusement, elle existe. Je n’insiste pas: où que je la mette, elle continuera d’exister et je continuerai de sentir qu’elle existe”
Notiamo come, dal punto di vista formale, la scena proceda per frasi brevi e spezzate, il cui soggetto, “Elle”, è quasi sempre la mano.
Possiamo rilevare inoltre l’accento posto sulle percezioni sensoriali. Esse sono espresse non soltanto dalla ripetizione del verbo “sentire” (“je sens”), ma anche dal senso del peso, del calore e, ancora prima, dal “vedere” la propria stessa mano come un oggetto estraneo a sé.
L’operazione di conoscenza è analoga ma allo stesso tempo opposta rispetto a quanto avveniva in Buffon. Il primo uomo avvertiva i confini della sua esistenza grazie alla percezione dei sensi e in particolar modo del tatto. Ma mentre in Buffon la mano permetteva di cogliersi nelle proprie qualità di soggetto che sente, qui il processo è diverso. La mano, attraverso il tatto, fa sì che l’individuo percepisca se stesso in una dimensione fenomenologica, che gli dà di colpo la certezza insopprimibile e insopportabile di esistere.
L’individuo esiste soltanto nella misura in cui “si dà”, entra in contatto con il mondo, e questo è possibile proprio soltanto a partire dai sensi, che forniscono l’imprescindibile tramite corporale.
E così “la seule chose de moi qui ne vit pas” del corpo di Roquentin sono infatti “le unghie”, vale a dire l’unica parte non dotata di sensibilità.
In tal senso, la mano è l’organo principale, in quanto è in grado di percepire le cose e anche il proprio corpo solo nelle loro qualità materiche.
I sensi sabotano la sovrastruttura di necessità e verosimiglianza, che vela, inconsapevolmente o in malafede, il dato reale della contingenza. Dunque essi permettono a Roquentin di progredire all’interno del suo percorso gnoseologico. Ma, allo stesso tempo, i sensi, e in questo caso il tatto, non consentono più di essere “bien à l’aise, bien bourgeoisement dans le monde”.
La mano ha perduto la sua funzione convenzionale, ovvero quella di “classer” e “déterminer”1 la realtà che ci circonda.
Il processo di defunzionalizzazione della mano passa anche attraverso la sua descrizione in chiave straniante. Essa infatti è avvertita qui come una sorta di insetto, un granchio, come viene definita, caduto sul dorso, le cui zampe si agitano freneticamente. E poi ancora, girata, essa appare come una specie di pesce, e il colore argentato la priva della sua apparenza umana, per farla regredire nel mondo della bestialità.
La grande quantità di dettagli e l’attenzione descrittiva operano dunque in direzione opposta rispetto a una raffigurazione oggettiva e realistica. Servono anzi a trasfigurare l’oggetto in modo inquietante, con un’operazione metalinguistica.
Questo procedimento si può trovare anche in altri passi del romanzo e spesso si trova riferito proprio alla mano. Se qui le mani sono “due bestie che si agitano all’estremità delle braccia”, nel saluto con l’Autodidatta, all’inizio del Diario, leggiamo: “Et puis il y avait sa main, comme un gros ver blanc dans ma main”. Ecco che la mano è percepita nei suoi aspetti qualitativi, nel suo essere molle, viscida e bianca, del tutto disumanizzata.
E ancora, mentre Roquentin si trova al “Rendez-vous des Cheminots” ed evita di guardare i tre o cinque uomini che giocano a carte al tavolo accanto, di tanto in tanto, “du coin de l’oeil”, coglie “un éclair rougeaud couvert de poils blancs” “un lampo rossastro coperto di peli bianchi.”
e solo in seguito arriva alla sua classificazione: “C’est une main” “E’ una mano”.
La regressione dell’oggetto a puro colore continua anche poche pagine dopo: “Les mains font des taches blanches sur le tapis” “Le mani fanno delle macchie bianche sul tappeto”.
Ma, oltre al contrasto tra macchie di colore, un altro elemento che concorre a creare un’atmosfera straniata è il dubbio sull’appartenenza di questa mano. C’è infatti ambiguità nell’attribuire la parternità della mano a uno o all’altro giocatore. Qualche riga sopra si dice infatti “Ce n’est pas à lui qu’appartient la main rouge”. p. 39. “non è a lui che appartiene la mano rossa”.
La mano non è più tanto un organo quanto piuttosto un organismo dotato di una propria vita, viene colto come del tutto svincolato dal soggetto a cui appartiene.
Non sembra qui inopportuna anche un’interpretazione psicanalitica. In un passo del saggio di Freud sul Perturbante leggiamo infatti:
Membra separate dal corpo, una testa tagliata, una mano staccata dal polso […] hanno tutti carattere estremamente perturbante, specialmente se […] si rivelano capaci per di più di attività autonoma.2
Freud riconduce in ultima analisi questa inquietudine al “complesso di castrazione”, il cui fantasma sembra aleggiare in tutta l’opera di Sartre (basti pensare alla ricorrenza di granchi e aragoste).
In ogni caso, un altro esempio di oggetto inanimato che si anima in modo inquietante, si ha all’interno del racconto “La chambre”, in Le Mur. Qui si tratta delle statue, che volteggiano ronzando per la camera, e hanno un corpo a metà tra la pietra e la carne.
Possiamo notare anche come, nella Nausée, questa percezione straniante abbia spesso come elemento centrale proprio il colore.
Ciò appare ancora più evidente nell’episodio finale dell’Autodidatta e dei giovani nella biblioteca di Bouville. Tutta la scena è dominata dall’ambiguità: la mano scivola furtivamente dietro la schiena, e in un primo momento viene da chiedersi a chi appartenga veramente. Al giovane bruno, al suo compagno, o all’Autodidatta stesso. Quando poi essa giunge a toccare l’altra mano, vediamo il culmine della sua regressione bestiale:
(6) “En tournant légèrement la tête, je parvins à attraper du coin de l’oeil quelque chose: c’était une main, la petite main blanche qui s’était tout à l’heure glissée le long de la table. A présent elle reposait sur le dos, détendue, douce et sensuelle, elle avait l’indolente nudité d’une baigneuse qui se chauffe au soleil. Un objet brun et velu s’en approcha, hésitant. C’etait un gros doigt jauni par le tabac; il avait, près de cette main, toute la disgrâce d’un sexe mâle.” p. 232
Durante il primo incontro con l’Autodidatta, la sua mano era stata definita un “grosso verme bianco”, mentre qui è “un oggetto bruno e peloso”, reso ancora più sgraziato dal contrasto con la pelle candida del giovane. Lo vediamo apparire come se fosse dotato di vita propria, svincolato da un braccio o da un’intenzione definita, come una bestia che si avvicini a un corpo nudo. E l’inquietudine è sottolineata anche dal riferimento sessuale: essa sembra un membro maschile che stia per violare una innocente bagnante.
Ancora una volta, notiamo l’espressione “ coin de l’oeil”, già trovata a proposito delle mani dei giocatori. Possiamo quindi affermare che la deformazione dell’oggetto passa sì attraverso la sua visione, ma soprattutto tramite una visione che potremmo definire “laterale”. Non si tratta di una coscienza visiva piena e chiara, e questa caratteristica dello sguardo permette a un livello ancora maggiore un mancato accordo tra percezione e cognizione. Quindi vedere l’oggetto con la coda dell’occhio equivale a non capire più la sua funzione.
Tutta l’immagine potrebbe essere accostata al quadro di Picasso “Famiglia di acrobati con scimmia”, del 1905. Questo dipinto appartiene al cosiddetto “periodo rosa” e raffigura un soggetto caro a Picasso: gli artisti che qui si riposano fuori dalle scene.
Gli acrobati sono visti in un momento di tenera intimità, con ancora addosso i vestiti di scena. La disposizione piramidale e armoniosa dei personaggi permette di accostarlo all’iconografia della Sacra Famiglia. La tenerezza dei rapporti familiari è sottolineata, oltre che dalla disposizione dei corpi, dalle linee del disegno e dai colori tenui. Ma vi è anche un dettaglio inquietante, che a prima vista rimane inosservato: si tratta del braccio sinistro della donna, che avvolge il bambino. Uscendo da una sorta di mantellina di pelliccia, esso viene a confondersi con il braccio della scimmia. Il colore grigio-bruno e l’aspetto peloso sembrano infatti qualcosa di bestiale. L’arto della scimmia giace in realtà in terra, ma il gioco di colore e l’aspetto vagamente umano dell’animale contribuiscono a creare tale ambiguità.
Procedimento analogo, che ha sempre al centro l’elemento del colore, è quello che si ha quando Roquentin osserva il suo volto nello specchio. Anche qui si tratta di un qualcosa di vivo e animato che di colpo perde le sue sembianze umane, per ridursi a una macchia grigiastra e informe, una “chose grise”
All’atto di specchiarsi non segue più un riconoscimento, ma l’identità è vissuta come alienazione.
Qui come nella scena in cui il protagonista osservava la propria mano-bestia, ciò che salva l’oggetto dalla sua trasfigurazione totale è il colore rosso. La nitidezza di questo tono, infatti, permette una percezione più distinta, in grado di far intravedere un residuo umano.
Nella scena della mano, i peli rossi salvavano dalle sembianze di “pesce”, mentre qui questo ruolo spetta ai capelli.
Del resto, la zia Bigeois l’aveva avvertito: “Si tu te regardes trop longtemps dans la glace, tu y verras un singe. – j’ai dû me regarder encore plus longtemps: ce que je vois est bien au-dessous du singe, à la lisière du monde végétal, au niveau des polypes”.
“Se ti guarderai troppo allo specchio, ci vedrai una scimmia. – io debbo essermici guardato anche più a lungo: ciò che vedo è ben al di sotto della scimmia, al confine col mondo vegetale, al livello dei polipi. ”.
Il riferimento alla scimmia ci rimanda ancora una volta al quadro già citato di Picasso: il bestiale si sovrappone all’umano in una confusione inquietante. Ma nell’osservare il volto, si va oltre. Esso infatti regredisce ancora più al di sotto, allo stadio vegetale, minerale, fino a divenire qualcosa di totalmente non classificabile in alcuna categoria. Esso, indicato con il pronome neutro “ça” è ridotto a un immenso alone pallido. Il tono dominante in questa perdita di significato è il grigio.
Possiamo osservare come il mancato accordo tra visione dell’oggetto e sua cognizione avvenga in modo più forte quando si ha a che fare con colori sfumati o poco definiti. Ciò avviene anche per il color malva delle bretelle di Adolphe, a metà tra il blu e il viola.
Il tono del grigio è molto ricorrente nel romanzo, e possiamo spesso trovarlo accostato alla dimensione dell’ottusità borghese. Grigi sono gli occhi dell’Autodidatta al ristorante, definiti “de pierre”3, “di pietra”.
E così anche il grosso signore del Poggio Verde, ha “son visage […] tout gris”4 “la faccia perfettamente grigia”
In questo caso, il colore assume una connotazione negativa, legata all’ottusità e all’ostinazione nel giustificare un’esistenza totalmente gratuita con la forza delle proprie abitudini e del proprio “diritto”.
In quest’ottica, potremmo accostare la passeggiata domenicale della vecchia e nuova borghesia a quella che vediamo rappresentata in toni foschi da Munch, nel dipinto “Sera sul corso Karl Johann”.
Qui assistiamo a una folla disumanizzata, il cui volto ha perso sembianze umane per ridursi a una maschera inespressiva, uno scheletro, come nel dipinto “L’urlo”. I corpi non sono distinti, ma ridotti a un’unica massa nera, che avanza come una marea sospinta in avanti senza volontà.
Assistiamo alla messa in scena sul piano spaziale di ciò che avviene nella dimensione assiologica: i borghesi si lasciano trasportare da “ciò che sta dietro” nello spazio, allo stesso modo in cui si lasciano determinare da ciò che li precede nel tempo, dal loro rassicurante passato.
Nella generale perdita di definizione del volto, appaiono ancor più rilevanti i dettagli.
Notiamo innanzitutto il volto dell’uomo sulla destra: di umano esso conserva solo i baffi.
Sembra di assistere alla raffigurazione pittorica dell’uomo che Roquentin incontra durante la scena del cogito:
“Le beau monsieur existe Légion d’honneur, existe moustache, c’est tout; comme on doit être heureux de n’être qu’une Légion d’honneur et qu’une moustache et le reste personne ne le voit, il voit les deux bouts pointus de sa moustache des deux côtés du nez; je ne pense pas donc je suis une moustache. Ni son corps maigre, ni ses grands pieds il ne les voit, en fouillant au fond du pantalon, on découvrirait bien une paire de petites gommes grises”.
“Il bel signore esiste Legion d’Onore, esiste baffi e basta; come si deve esser felici di non essere che una legion d’Onore, e dei baffi, e il resto nessuno lo vede, vede le due punte dei baffi ai lati del naso; non penso dunque sono dei baffi. Non vede né il suo corpo magro, né i grandi piedi, frugandoli in fondo ai pantaloni certo si scoprirebbe un paio di piccole gomme grige”.
Altro elemento che definisce l’identità borghese della massa è proprio il cappello, protagonista della scena della passeggiata domenicale.
Per contrasto, la figura netta e solitaria che si allontana sullo sfondo, sembra non essere caratterizzata socialmente in tal senso. Se anche essa porta un cappello, infatti, ciò non si distingue.
Lo stesso Roquentin rivela ad Anny di non portare più il cappello ormai. Anny se ne dichiara felice, dal momento che qualsiasi cappello avrebbe stonato sul rosso dei suoi capelli.
E proprio il netto colore rosso è ciò che distingue anche coloristicamente Roquentin dal resto della folla borghese. Il rosso gli permette di salvare dall’anonimato il suo volto nello specchio, mentre il volto di Rollebon, per contrasto, conserva solo due pupille grigie e il blu e il bianco di un “fromage de Roquefort” p. 35.
La dimensione borghese, dunque, che si lega al rigetto del passato, è contraddistinta spesso dai colori scuri, grigi e “marci”. Gli stessi toni bruni che troviamo nel museo di Bouville, nei ritratti degli illustri messi a baluardo di tutto un sistema di valori ostinati e putrescenti.
Un ultimo esempio che possiamo fare è proprio la statua di Impetraz, altro elemento di riconoscimento dei “salauds” di Bouville. Il suo grigiore di statua è corroso da una strana lebbra, e una grande macchia verde si staglia al suo centro e la corrode lentamente.