Analisi del racconto “I pomeriggi del sabato” di Antonio Tabucchi

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Analisi del racconto “I pomeriggi del sabato” di Antonio Tabucchi.

a cura di Alessia Pellegrini

I pomeriggi del sabato” fa parte della raccolta “Il gioco del rovescio”, pubblicata nel 1981.
Il racconto è ambientato in un paesino della Toscana, durante un’estate alla fine degli anni Cinquanta.

Esso è stato spesso accostato dalla critica ad altri due testi di Tabucchi, “Capodanno” (che si trova all’interno di “Angelo Nero”) e “Gli incanti” (in “Piccoli equivoci senza importanza”).

Lausten, in “L’uomo inquieto. Identità e alterità nell’opera di Antonio Tabucchi”, parla a questo proposito di “una sorta di trilogia di racconti d’infanzia”, poiché essi sono accomunati da alcuni elementi peculiari, che permettono di isolarli dagli altri testi: in primo luogo, la voce narrante appartiene a un bambino, nel nostro caso a un ragazzo tra i 12 e i 13 anni.
Inoltre, tutti e tre i giovani protagonisti hanno perso il padre, in circostanze più o meno chiare, e sembrano vivere in una sinistra condizione di assenza.
Altro elemento in comune è l’ambientazione nel dopoguerra e il fatto che i padri dovessero essere stati ufficiali nell’esercito di Mussolini.
Questo aggancio storico e intertestuale (con possibili riferimenti anche ad altri testi di Tabucchi) ha portato alcuni critici a dare un’interpretazione de “I pomeriggi del sabato”, basata su elementi esterni al testo1.
Pur riconoscendo il carattere aperto e spesso non auto-conclusivo di molte opere di Tabucchi, che si prestano ad essere di volta in volta soggetto e oggetto di un gioco di rimandi e riprese, ritengo tuttavia che il racconto in questione debba essere analizzato nella sua autonomia e come portatore di un messaggio in sé compiuto.

La vicenda narrata si pone fin dall’inizio come ricordo di un passato non precisato. Siamo nel giugno di un’estate caldissima, in cui il giovane protagonista cerca di ingannare la monotonia dei giorni studiando con accanimento la sua grammatica latina, per riuscire a recuperare a Settembre.

Immersa in una noia ancora più avvilente è anche la sorellina Maddalena, detta “la Nena”, dal momento che “alle elementari non rimandavano a settembre2. La bambina passa le sue giornate a giocare nel suo pied-à-terre in giardino, un piccolo rifugio composto dalla sdraio di tela azzurra che era stata la prediletta del padre, con le sue bambole, che ella definisce le sue “amichette”, e il suo gatto rossiccio, Belafonte, legato al guinzaglio. Motivo di tale nome è la passione della Nena per la canzone “Banana Boat”, di Harry Belafonte, che ella canticchia o meglio fischietta continuamente.
La madre, però, la figura più malinconica e triste della prima parte del racconto, spesso la rimprovera, intimandole di smettere, perché “non è il caso”. La madre si rivela insofferente verso ogni tipo di “canzonetta”, tant’è che ella cambia repentinamente stazione alla radio, non appena ne trasmettono una e ascolta soltanto i programmi parlati.

Fin da subito si avverte come l’estate in cui è ambientato il racconto non si distingua dalle altre solo per “una calura che dicevano non si sentiva da anni3, ma anche per l’ingombrante vuoto derivato dalla scomparsa del padre.
La figura paterna non è mai apertamente nominata, né si fa riferimento esplicito alla sua morte.

Come avviene in molte altre opere di Tabucchi, l’assenza è “già data”: la perdita è già avvenuta al di fuori della cornice del racconto, cosicché “ciò che è perduto” non ha i contorni netti e oggettivi di un’alterità definita, ma appare sempre filtrato dalla coscienza e dalla soggettività dell’io narrante.

In questo caso, il testo è fitto di rimandi impliciti alla tragedia non nominata: vi si allude come a una “disgrazia4, con parole connesse all’ambito semantico del lutto (“quel giorno infernale”; “sola col mio dolore”, “gli occhi lustri5).
Inoltre emerge in modo evidente la contrapposizione tra un “prima”, vitale, solare e condiviso, e un “dopo” la tragedia: la casa è ora sempre più immersa nel torpore e nell’inerzia, nel buio delle imposte che riparano dal caldo estivo. La “chiusura” è un elemento importante e ricorrente nel racconto.

Leggiamo infatti “la mamma, dopo quello che era successo, aveva preso a chiudere a chiave il cancello perché nessuno potesse entrare e noi non potessimo uscire6.
Allo stesso modo, più avanti, il ragazzo chiuderà le persiane della sua finestra, rifiutando il dialogo con la sorellina Nena che lo chiama dal giardino.

L’entrata in scena del soprannaturale.

Il racconto, ricco di dettagli e informazioni sulla monotonia estiva dei tre personaggi, subisce una svolta inaspettata, alle due in punto di un pomeriggio di sabato. Nel testo è possibile individuare il punto netto di stacco, quando la voce narrante afferma:

Tutto questo fino a quel pomeriggio in cui la Nena attraversò di corsa il giardino, si mise sotto la finestra del salotto, chiamò mamma mamma, e disse quella frase. Era un sabato pomeriggio7.

La frase a cui si fa riferimento è quella riportata all’inizio del racconto:

Era in bicicletta, disse la Nena, aveva in testa un fazzoletto coi nodi, l’ho visto bene, anche lui mi ha visto, voleva qualcosa qui di casa, l’ho capito, ma è passato come se non potesse fermarsi, erano le due precise8.

Seppure posta in una posizione privilegiata, questa affermazione con cui si apre il testo tende a scivolare via dalla mente del lettore, che si trova sommerso da troppi particolari, racconti e aneddoti quotidiani (dalle stranezze della zia Yvonne, alle paure del vecchio Tommaso, amico di famiglia, fino alla fioritura delle azalee e ai dettagli culinari di budini al caramello e pietanze “di una ovvietà raccapricciante9).
Questo procedimento di diffrazione del fulcro narrativo può ricordare quanto avviene nel registro di un racconto giallo: l’elemento centrale per la comprensione della storia, quello che permette di sbrogliare la matassa degli avvenimenti, è enunciato in modo chiaro e alla portata del lettore, ma allo stesso tempo si cela dietro una congerie di elementi secondari.

In questo caso, però, la tecnica della differita permette di avvicinare il racconto anche a un altro ambito, che è quello del fantastico.

Quella che infatti potrebbe apparire una frase comune, che registra un normale avvenimento realistico, si configura portatrice di una verità inaccettabile e profondamente perturbante per tutti i personaggi della storia, e in particolar modo per il protagonista.

Introdotto da una climax ascendente di caldo e di noia, l’evento soprannaturale si affaccia sulla scena circondato da un’aura di mistero, in cui il lettore è costretto a rimanere costantemente nel dubbio.
Il sospetto nasce proprio dalla reazione del ragazzo di fronte alle parole della sorella:

Avevo la testa fra le mani e ripetevo disperatamente l’ablativo, la frase della Nena mi parve una delle sue solite scempiaggini. Ma all’improvviso sentii una vampata di calore che mi saliva alla fronte, poi cominciai a tremare e mi accorsi che le mani mi tremavano sulla Minerva della mia grammatica latina che si era chiusa da sola10.

Emergono elementi anomali, spie di un inspiegabile malessere: per due volte nella frase ricorre il verbo “tremare”, mentre la “vampata di calore” preannuncia il “sudore” che coglierà più volte il protagonista nei giorni successivi. Esso è un elemento che si trova anche in altri testi di Tabucchi, spesso connesso al manifestarsi di un evento fantastico, come ad esempio l’incontro con un fantasma (come avviene in “Requiem”). Inoltre, l’ambiguità del testo è suggerita anche da un dettaglio secondario eppure suggestivo: la grammatica di latino che si chiude da sola, come fosse animata da un prodigio.

Ogni cosa potrebbe trovare una spiegazione plausibile e razionale, ma è vero anche che il dubbio che tormenta il protagonista da questo momento in poi si sottrae a ogni tentativo di razionalizzazione.

Ma da che cosa deriva tanta inquietudine?
Il testo non ci permette di dirlo chiaramente. Invece di cercare di chiarire una volta per tutte quello che il protagonista definisce un suo “equivoco”, egli evita il confronto con la sorella, annunciatrice dell’incontro, e in seguito anche con la madre. Il ragazzo evita in ogni modo il dialogo, dal momento che egli sente di “sapere” già che cosa la bambina vorrebbe dirgli.

Proprio la tematizzazione del dubbio, accanto alla volontà di non approfondire la conoscenza del misterioso visitatore, crea un’atmosfera difficilmente discostatile da quella di un racconto fantastico.

Essa sembra coincidere perfettamente con quanto teorizza Todorov:

il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione: esitazione comune al lettore e al personaggio i quali debbono decidere se ciò che percepiscono fa parte o meno del campo della “realtà” quale essa esiste per l’opinione comune11.

È ciò che Francesco Orlando, nel saggio “Gli statuti del soprannaturale nella letteratura” definirà come “soprannaturale di ignoranza”. Esso si caratterizza per una costante oscillazione tra il “credito” e la “critica” nei confronti dell’avvenimento soprannaturale.
Il lettore non ha a disposizione le informazioni necessarie per poter scegliere, dal momento che il suo punto di vista coincide con quello del protagonista, interiormente depotenziato.

Gli elementi che qui concorrono a rendere inaffidabile la voce narrante sono molteplici: in primo luogo, il protagonista non vive l’avvenimento perturbante in prima persona, ma esso viene riferito da un altro personaggio “dotato di particolare sensibilità12, la sorellina Nena.
Questa tecnica di rappresentazione degli “strani incontri” è la stessa utilizzata da Henry James in “Giro di vite”, in cui gli spettri sembrano manifestarsi in modo privilegiato e frequente ai due bambini, creature al contempo incantevoli e inquietanti.

Nel racconto “I pomeriggi del sabato”, però, il filtro della sensibilità infantile è affiancato anche dalle reticenze della madre stessa, la quale in un primo momento non crede alle parole della figlia. La sua prima reazione è infatti quella di richiamare in casa la Nena: “Ora vieni in casa, amore, fa troppo caldo, hai bisogno di fare un pisolino, non puoi startene lì in codesta afa che fa male ai bambini13.

Le ultime parole, “afa che fa male ai bambini”, sembrano per un momento farci propendere per una spiegazione razionale dell’accaduto. La frase riportata dalla bambina è sì assurda e inaccettabile, ma può spiegarsi come semplice allucinazione dovuta all’eccessivo caldo delle due di un pomeriggio di fine Luglio. La logica di un adulto, in questo caso la madre, non può lasciarsi “contagiare” da questa apertura all’irrazionale e riporta l’elemento estraneo, eversivo, in un contesto realistico e rassicurante.

L’iterazione delle visite, che si ripetono puntuali ogni sabato pomeriggio alle due, produce un graduale cambiamento nell’atteggiamento della madre. Ella si fa sempre più “assente”, sovrappensiero, e il protagonista nota che i suoi “occhi erano fissi lontano, oltre la finestra di cucina, sul viale che moriva nelle campagne, come se dovesse arrivare qualcuno14.

Il verbo “moriva”, già usato nel racconto a proposito del paesaggio esterno, si inserisce in una semantica mortuaria che ritorna a più riprese. Ad esempio, la mamma viene accostata all’immagine di un “pesce agonizzante”. Non si tratta dell’unica apparizione di un animale nel testo: nel tentativo di spaventare la petulante sorella, infatti, il protagonista le rivolge un maleaugurante “strix strigis strix strigis15. L’uccello notturno evoca solo di sfuggita la simbologia lugubre e funesta a esso connessa (nelle leggende antiche si diceva infatti che lo strige succhiasse il sangue, in particolar modo quello dei bambini). Anche il canto delle cicale, prima definite “uniche superstiti viventi16, nella seconda parte del racconto è descritto come “un pianto17. Inoltre il silenzio che coinvolge la casa si acuisce ancora di più, dal momento che perfino la Nena, senza apparente motivo, ha smesso di canticchiare la sua “Banana Boat”, accorgendosi che forse “non è il caso”.
L’attesa dell’incontro successivo si fa angosciante, “assurda” e “atroce” come un “peccato18.

La prospettiva soprannaturale sembra avvalorarsi sempre di più e il misterioso visitatore in bicicletta si delinea progressivamente come uno spettro, il fantasma del padre giunto dal passato.

Spazio e tempo.

Prima di approfondire la questione dell’identità di questo personaggio e di definire il ruolo del fantastico all’interno del testo, vorrei soffermarmi su un aspetto a mio parere centrale nel racconto: la particolare trattazione della dimensione spazio-temporale.

Spazio e tempo, le condizioni stesse di pensabilità di un fenomeno, assumono nel testo un ruolo molto importante, relativizzandosi e caricandosi di valenze soggettive.
Nonostante i molti “indizi” disseminati da Tabucchi, che ci permettono di collocare la vicenda narrata nello spazio e nel tempo, l’abbondanza di “date” e “numeri” opera in realtà in direzione opposta rispetto a una raffigurazione oggettiva e realistica.

A un primo livello, i molti dettagli ci permetterebbero di dare agli avvenimenti una contestualizzazione ben definita.

A un livello più profondo di analisi, però, si nota come, al di là di tutti questi “dati di realtà”19, spazio e tempo vengano continuamente filtrati e deformati dalla soggettività dei personaggi.

Il lettore è posto di fronte a una sovrabbondanza di riferimenti temporali, che segnalano lo scorrere dei mesi da maggio ad agosto, ma anche la scansione dei vari momenti della giornata, divisa tra mattina, dopo pranzo e tardo pomeriggio, fino ad arrivare alle ore e ai minuti, con il ricorrere dell’orario delle due del pomeriggio.

Il tempo però, così minuziosamente scandito e registrato, è in realtà dilatato o contratto a seconda della percezione dell’io narrante e, nel corso della narrazione, si fa progressivamente più frenetico.

Ciò è segnalato dalle indicazioni temporali che si trovano nella narrazione: “Per tutto maggio e una parte di giugno le giornate passarono abbastanza svelte”, “Il giugno passò così così”, “Le giornate peggiori arrivarono alla fine di luglio”.
Il procedere dei mesi estivi si arena poi nell’accento posto esclusivamente ai pomeriggi del sabato, in confronto a cui tutti gli altri giorni si comprimono: “Non so come passò quella settimana. Veloce, ecco, passò veloce.”, “E arrivò subito il sabato”, “E fu come se mi svegliassi il sabato seguente”.

Per contrasto, lo scorrere di pochi minuti viene percepito come “un tempo interminabile”.

Questo processo di interiorizzazione dei paradigmi conoscitivi è riscontrabile poi, a livello spaziale, nella dialettica dentro-fuori che domina l’intero racconto.

Fin da subito assistiamo al configurarsi della casa come una prigione, il cui carceriere è la madre stessa, che si isola sempre più dal resto del mondo. Venute a mancare anche le eccentriche visite della zia Yvonne, i tre protagonisti si trovano in una condizione periferica e solitaria, dominata da silenzi sempre più claustrofobici. All’interno il tempo passa fiaccamente, tra chi finge di studiare il latino e chi finge di dormire.
Solo la piccola Nena preferisce ancora l’aria aperta, e a volte giunge fino al limitare del giardino con il suo Belafonte al guinzaglio, per andare “a vedere un po’ di mondo20.

Lo spazio chiuso e opprimente della casa è stato accostato da Patrizia Farinelli, nel suo saggio “Dire il doppio e l’indecidibile”, a quello di “Casa tomada” di Julio Cortázar, in italiano “Casa occupata”.

A mio avviso, le analogie tra questi due ambienti non si limitano al loro carattere oppressivo nei confronti di chi li abita. In “Casa occupata”, così come ne “I pomeriggi del sabato”, i protagonisti proiettano un malessere interiore in un contesto fisico, spaziale. Essi pensano che il dolore sia qualcosa che possa essere localizzato, allontanato chiudendolo “fuori” o, nel caso di “Casa occupata”, “dentro” la propria abitazione.

Nel racconto di Cortázar, i due fratelli, rimasti ormai soli al mondo, vivono in una grande casa, prigionieri delle loro abitudini e rispettive passioni/ossessioni. Al di là di questa maschera diurna, in realtà, si cela un risvolto ambiguo che appare solo al calar del sole.

Insonnie e incubi sono le spie inconsce di un qualcosa di non detto che turba la tranquillità e l’ordine domestico faticosamente costruiti. Seppur inespresse, queste tensioni inconsce si concretizzano, nel prosieguo del racconto, proiettandosi nell’apparizione di presenze estranee all’interno della casa, presenze che, anche se non viste, vengono “percepite”. D’improvviso un rumore, delle voci da un lato dell’abitazione, fanno sì che il protagonista maschile si affretti a chiudere a chiave quel lato della casa, dichiarandola “occupata”:

Questo, che è il motivo centrale nel racconto dello scrittore argentino, è solo uno dei temi presenti nel testo di Tabucchi. Anche ne “I pomeriggi del sabato” è possibile rilevare il tentativo della madre di “oggettivare uno stato d’animo”: chiudendosi nella casa e nel silenzio, evitando ogni confronto con l’esterno, ella attua un procedimento di rimozione della perdita subita. Il suo serrarsi spaziale, all’interno della villa, è anche un allontanamento temporale, da un passato che fa male e da cui si vogliono prendere le distanze.

Ci si isola in realtà anche dal futuro, per trincerarsi in un eterno presente, monotono e invariabile.
La stasi dell’interno, dominata dal silenzio, si contrappone alla vitalità della Nena all’esterno. L’abitudine e la ripetizione sono le condizioni che sembrano rendere vivibile e razionale una vita fondamentalmente inspiegabile o insensata.

Ma, in Tabucchi, come in Cortàzar, un elemento interviene “da fuori”. Si tratta di qualcosa di esterno, che proviene da un altrove spaziale (il fuori, appunto), ma anche temporale (il passato). Esso si configura però anche come un elemento interno: un violento ritorno del rimosso. Ciò che si era cercato di allontanare e rimuovere (la morte del padre/marito) torna con la prepotenza di un’apparizione a metà tra il fisico e il metafisico.
Se infatti il contesto dell’apparizione dell’uomo in bicicletta fa pensare alla figura di uno spettro, è vero anche che, come è consueto in Tabucchi, il fantasma si presenta con bisogni tutti fisici e corporei.

In Requiem il personaggio di Tadeus afferma quella che sembra essere una autentica dichiarazione di poetica sul fantastico: Per quel che mi riguarda io ho sempre preferito il materiale all’immaginario, o meglio mi è sempre piaciuto ravvivare l’immaginario col materiale21.

L’oggetto che egli sembra volere dalla casa, infatti, si rivela essere un cappello, nello specifico un cappello che il protagonista dichiara di conoscere bene.

Il padre defunto non è tornato dall’aldilà per terrorizzare i suoi cari, né si configura come una proiezione mentale, dovuta a un non precisato complesso edipico del giovane figlio. Semplicemente egli sta facendo un giro in bicicletta durante un sabato pomeriggio, come era solito fare quando era in vita, e ha bisogno di qualcosa per ripararsi dal sole.

Non sembra casuale che il ricordo più vivido del ragazzo sia proprio l’immagine di lui e suo padre su un tandem.


Come rileva Lausten:

Questo elemento fantastico allucinatorio del padre che ritorna sembra essere un misto di sogno e memoria, visto che il ricordo preferito del figlio è proprio una gita in bicicletta del padre22.

La dimensione della memoria e del sogno si mescola e si confonde con quella del reale.
In molti passi del racconto è possibile riscontrare una sovrapposizione tra i due piani, quello della realtà e quello che potremmo definire della “finzione”, immaginativa o artistica che sia.

Fin da subito è opportuno precisare come tale ambiguità tra verità e immaginazione agisca reciprocamente in una direzione o nell’altra.
Un primo esempio si ha con la fantasticheria del ragazzo che immagina di viaggiare, a bordo di un treno che parte dai suoi pensieri per arrivare in tutto il mondo: “Mi sistemavo in uno scompartimento deserto, aprivo il mio libro di geografia e decidevo che sarei andato in una di quelle fotografie23.

E poi, più avanti, leggiamo:

Non avevo voglia di pensare, gli occhi mi si chiudevano ma non dormivo, sotto le palpebre mi passavano le immagini più diverse, io che arrivavo al porto di Singapore, che curioso, era identico alla fotografia del mio libro, di diverso c’era solo che dentro quella fotografia c’ero anch’io24.

In entrambi i passi, la fantasia si presenta in un momento di dormiveglia, e procede dalla “finzione” verso la “realtà”.

A partire da una foto, un oggetto fisso e inanimato, si immagina di passare a un piano di realtà dinamica.
Il passato ritorna anche come percezione dei sensi, quando il ragazzo sente “sul palato, acuto, nitidissimo, con un profumo inequivocabile, il sapore del gelato di mirtilli25, evocato dal ricordo delle gite al mare con il padre.
Allo stesso tempo, però, si affaccia qui anche il procedimento inverso, dalla “realtà” alla “finzione, per cui, nel sogno, il giovane entra a far parte della fotografia stessa.

Questo passaggio si attuerà poi concretamente alla fine del racconto, nel momento in cui il ragazzo guarda la madre, in partenza per il suo incontro con “il fantasma”:

Da principio non mi parve neppure lei, che strano, era la mamma di quella fotografia del comò dove lei era sottobraccio a papà, dietro di loro c’era la basilica di San Marco e sotto c’era scritto Venezia 14 Aprile 1942. Aveva lo stesso vestito bianco con dei grandi pois neri, le scarpe con un buffo cinturino allacciato sulla caviglia e una veletta bianca che le copriva il viso. […] Camminò leggera fino all’imbocco del vialetto […], con un’andatura graziosa che non le avevo mai visto, a guardarla così dal di dietro sembrava molto più giovane26.

In questa descrizione non appaiono più distinguibili l’oggettivo e il soggettivo. La madre ha perso tutta la gravità che aveva contraddistinto la sua figura all’interno del testo, per divenire improvvisamente più “leggera” e “giovane”, eterea come la figura di una fotografia, o come un fantasma.

Essa sembra aver oltrepassato la cornice, essere sbucata dall’altra parte del quadro, nel rovescio del reale.

Realtà e sogno, memoria e immaginazione, vita e morte non sono più elementi opposti e inconciliabili.
È questo il significato del “gioco del rovescio”, esposto nel racconto omonimo, il primo di questa raccolta.

A questo punto, forse, indagare quale sia l’identità del misterioso visitatore risulta superfluo. Non conta tanto capire che cosa egli sia, se persona reale o fantasma, quanto piuttosto ammettere la possibilità che esso sia, allo stesso tempo, entità esistenze e inesistente, presenza concreta e proiezione mentale.

Questa interpretazione ci permetterebbe di accostare il testo a un altro racconto di Cortàzar, “Lettere di mammà”, che mette in scena, in un mutato contesto narrativo, un’analoga apparizione di un fantasma che supera il tempo (poiché proviene dal passato) e lo spazio (dal momento che attraversa l’oceano che separa Argentina ed Europa).

Per capire meglio il significato del messaggio veicolato dall’elemento fantastico ne “I pomeriggi del sabato”, cito la nota posta in apertura di Piccoli equivoci senza importanza.

Qui Tabucchi fornisce una chiave di interpretazione di due dei racconti contenuti in quella raccolta. Uno di questi è “Gli incanti” che, come ho detto all’inizio della mia esposizione, è stato spesso accostato a “I pomeriggi del sabato”.
L’autore ci dice che i due testi possono essere “considerati due racconti di fantasmi, nel senso più vasto del termine; il che non impedisce, naturalmente, che possano essere letti anche in un altro modo27.

Questo sembra il messaggio che l’elemento fantastico veicola all’interno del racconto.

La spiegazione razionale, così a lungo e vanamente cercata dal protagonista, non basta a rendere conto di quello che viviamo, non fornisce una verità assoluta, ma si configura soltanto come una delle tante prospettive possibili.

Leggo a questo proposito un passo tratto dall’inizio del racconto “Rebus”, all’interno di Piccoli equivoci senza importanza:

A volte una soluzione sembra plausibile solo in questo modo: sognando. Forse perché la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti tra le cose, a stabilire la completezza, che è una forma di semplicità, preferisce una complicazione piena di buchi, e allora la volontà affida la soluzione al sogno28.

Allo stesso modo, però, anche la prospettiva fantastica non esaurisce necessariamente il senso dell’avvenimento.
Entrambe le posizioni sono plausibili e coesistono in un gioco di continue e mutue interconnessioni.

All’interno di “I pomeriggi del sabato”, il “vuoto tra le cose” sembra essere l’assenza dovuta alla morte del padre.

In quest’ottica, però, soltanto la sorella e la madre del narratore sembrano riuscite a superare “la soglia” tra reale e immaginario, accettando prima con paura ma poi con sollievo l’irruzione del “fantasma” nell’ordine domestico.
Il protagonista, invece, appare turbato e angosciato, proprio in virtù della sua logica fatta di tesi e antitesi, di un elemento dato e del suo opposto.

Egli dunque non comprende la logica del rovescio, e cerca di ancorarsi come può ad appigli razionali. Emblema di questo tentativo è proprio lo studio affannoso del latino, una lingua esatta, ordinata, dalle cui ferree regole non si può prescindere.

Mantenendo separati e distinti i piani del reale e dell’immaginario, il giovane non può che essere turbato dal loro confondersi e sovrapporsi.

La sua inquietudine risulterebbe infatti spiegabile con quanto scrive Genette a proposito della “reversibilità tra universo artistico ed esistenziale29:

Inversioni di questo genere suggeriscono che se i personaggi di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, potremmo essere personaggi fittizi.

Ritengo che questo permetta di comprendere una delle ultime frasi del protagonista, che rimane isolata e oscura alla fine del racconto.
Il ragazzo guarda la madre dalla finestra, dopo che l’incontro è ormai avvenuto “fuori dalle scene” e vorrebbe gridarle a gran voce “sono qui io, mamma”.

Questo grido non espresso sembra essere una rivendicazione di identità da parte dell’io, che si sente minacciato dalla confusione tra i piani del fantastico e del reale

Il giovane, però, non può essere considerato rappresentante della ragione e della razionalità30, come sostiene Maria Pia Ammirati.

Non si tratta di distinguere tra un piano della razionalità, rappresentato dal protagonista, e uno del fantastico, di cui entrerebbero a far parte la madre e la sorella.

Siamo di fronte piuttosto a due diverse modalità di approccio al reale: quella binaria di tesi e antitesi, e quella “plurale”, del rovescio.

Citando il quadro “Las Meninas” di Velázquez, madre e bambina avrebbero assunto il ruolo non dell’altro lato della tela, invisibile allo spettatore, ma quello dell’onnipotente figura di fondo.

Del resto, anche il protagonista presenta numerosi “segni di cedimento”, che lo spingono a lasciarsi “contagiare” dalla prospettiva del rovescio.
A testimoniarlo sono le allucinazioni di cui è vittima suo malgrado, la sua propensione per la “composizione libera”, più che per lo studio dell’esatta lingua latina.

Infine, prova inequivocabile di come la ragione non esaurisca il senso totale delle cose, è una sensazione ben definita che il ragazzo non può fare a meno di provare e constatare, e che gli provoca un misto di ansia e di sollievo: “un sapore acutissimo di mirtilli”.

Note al testo “I pomeriggi del sabato” di Antonio Tabucchi

1Ad esempio Palmieri.

2p. 63.

3p. 61.

4p. 58.

5p. 59.

6p. 62.

7p. 66.

8p. 57.

9p. 60.

10p. 67

11Todorovo, p. 45

12Ceserani, Il fantastico, p. 141.

13p. 68.

14p. 69.

15p. 63.

16p. 61.

17p. 72.

18p. 73.

19Ceserani.

20p. 62.

21Antonio Tabucchi, Requiem, Feltrinelli, Milano 1992, p. 45.

22Lausten, p. 61.

23p. 66.

24p. 72.

25p. 64.

26p. 75.

27Antonio Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano 1985, p. 8.

28A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano 1985, p. 29.

29Tiziana Arvigo, La figura di fondo, p. 12. Genette, L’universo reversibile.

30Lausten, cit a p. 62.

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