Analisi del sonetto “Me’ mi so cattiveggiar sun un letto”.
di Alessia Pellegrini
LVII1
Me’ mi so cattiveggiar sun un letto,
che neun om che vada ‘n su duo piei:
ché ‘n prima fo degli altru’ danar miei;
or udirete po’ com’ i’ m’assetto:5 ché ‘n una cheggio per maggior diletto
d’esser in braccio ‘n braccio con colei,
a cu’ l’anim’e ‘l cuor e ‘l corpo diei
interamente senz’alcun difetto.
Ma po’ ched i’ mi trovo ‘n sul nїente
10 di queste cose ch’ i’ m’ho millantato,
fo mille morti ‘l dì, sì son dolente.
E tutto ‘l sangue mi sento turbato,
ed ho men posa che l’acqua corrente,
ed avrò fin ch’ i’ serò ‘nnamorato.
Il sonetto Me’ mi so cattiveggiar sun un letto è paragonato da Marti a una «volgare canzone» che risuona d’improvviso nella «silenziosa architettura di un sacro tempio»2, con riferimento alla struttura stessa del testo, il quale si inserisce nel solco della tradizione dei “sogni” dei poeti stilnovisti e dei plazer dei provenzali.
Il plazer è un genere proprio della lirica provenzale, in cui il poeta elenca una serie di desideri o di situazioni piacevoli, a cui spesso si affianca il genere dell’enueg, ovvero un componimento «in cui ai piaceri vengono contrapposti corrispondenti fastidî»3.
Cecco si presenta al lettore disteso sopra un letto, intento a immaginare tutto ciò che, nella realtà, egli non potrebbe mai ottenere. A differenza delle fantasticherie dei plazer tradizionali, i suoi sogni sono tutt’altro che nobili ed eterei, anzi «si sente che nel vecchio schema è introdotta coscientemente una corpulenza stridente e beffarda»4.
Una iniziale parafrasi potrà aiutare ad esemplificare meglio il senso complessivo del sonetto, di cui saranno successivamente trattati i punti discussi e le particolarità strutturali:
LVII
Io riesco a fantasticare sopra un letto
meglio di chiunque cammini su due piedi:
che come prima cosa mi approprio dei denari altrui (si intende “nel sogno”)
e poi ora ascolterete come io mi metto comodo5:5 poiché in una sola volta chiedo per una gioia maggiore
di stare stretto stretto con colei
a cui ho dato l’anima, il cuore e il corpo,
tutto intero, senza tralasciare niente.Ma poiché6 mi ritrovo con intorno niente
10 di tutto ciò che io mi sono immaginato,
muoio mille volte al giorno, tanto sono sofferente.E mi sento tutto il sangue guastato,
e ho meno quiete dell’acqua corrente
e continuerò ad avere (tale turbamento) fin tanto che io sarò innamorato.
Nel primo verso, Cecco introduce il tema del «cattiveggiar», verbo centrale del componimento, il cui significato deve essere preliminarmente chiarito.
Per quanto riguarda l’etimologia, esso deriva da “cattivo”, a sua volta dal latino “captivum” (latino volgare “*cactivus”), che indicava in origine “colui che è preso prigioniero”, dal verbo “captare”, formatosi dal supino di “capio”. Alla forma attiva, esso indica “Vivere malamente, nei vizi, nell’indolenza”, mentre alla forma passiva assume la valenza di “tormentarsi, amareggiarsi la vita”.
Il TLIO segnala che in questo componimento si ha la prima attestazione del termine, riportando il seguente significato: «Vivere nell’indolenza, oziare. Perdere il tempo in ozio lamentoso. Con una sfumatura più prossima a oziare o a lamentarsi non sempre ben determinabile»7.
Gli editori si schierano a favore ora della prima, ora della seconda accezione e, in particolare, Massera, Stanghellini e Lanza optano per il senso di “oziare”, «abbandonare all’indolenza»8; mentre Vitale, Steiner e Marti preferiscono parafrasarlo con “tormentarsi”9.
In questo contesto, però, sembra più calzante il commento di Castagnola, che suggerisce come qui il verbo, con il “mi” riflessivo, indichi un affannarsi tutto nella fantasia, e dunque più propriamente un «sognare»10.
È pertanto preferibile accogliere questa interpretazione, scegliendo per il termine «cattiveggiar» la parafrasi “fantasticare”, dal momento che in questa prima parte del componimento non si avverte ancora alcun senso di turbamento da parte del poeta. Durante le due quartine, infatti, Cecco elenca con gaia esuberanza tutto ciò che vorrebbe realizzare, se solo ne avesse la possibilità. Il suo tono non è né lamentoso né disperato, ma anzi giocoso nell’esporre le sue “fantasticherie”.
Esse esprimono soltanto piaceri materiali, fornendo una divertente parodia del genere del plazer. Numerosi elementi comici, infatti, sabotano il testo dall’interno, sia a livello contenutistico, sia a livello stilistico, a cominciare dai primi due versi, dove si fa uso dell’iperbole, consueta nella poesia dell’Angiolieri. Questa figura si riscontra nell’espressione «Me’ mi so cattiveggiar sun un letto, / che neun om che vada ‘n su duo piei», in cui il poeta dichiara di essere superiore a chiunque altro al mondo nel «cattiveggiar».
L’effetto comico scaturisce proprio dalla natura assai poco lodevole del primato vantato da Cecco e il carattere basso dell’affermazione è rimarcato dall’uso del sostantivo «letto», posto in evidenza alla fine del v. 1, il quale, ripreso da un contesto tutt’altro che sublime, attenua fin da subito il “tormentarsi” del protagonista.
Il termine «cattiveggiar» potrebbe quindi essere stato usato consapevolmente dal poeta proprio in virtù delle sue due sfumature di significato: l’accezione inizialmente suggerita è quella di “affannarsi”, ma, col procedere del verso, il termine va ad assumere la valenza di “tormentarsi per gioco”, e dunque “fantasticare”.
Oltre che per la sua posizione a fine di verso, il sostantivo «letto» è messo in evidenza anche dalla rima inclusiva con «diletto» (v. 5), termine caro agli stilnovisti, che però, in questa sede, perde ogni sua connotazione alta. È possibile al massimo pensare alla joi provenzale, ma, in realtà, tutta la seconda quartina sembra prestarsi piuttosto a una lettura in chiave terrena e oscena.
Dopo aver infatti chiarito, nella prima quartina, la maggiore delle sue aspirazioni, quella di impadronirsi dei denari altrui, nella seconda Cecco passa a fantasticare sulla donna amata.
Il desiderio riguarda questa volta lo stare «in braccio ‘n braccio», cioè “stretto stretto” con la donna, in un possesso di natura tutta fisica e carnale, come specificano i vv. 7-8 “a cui ho dato l’anima, il cuore e il corpo,/ tutto intero, senza tralasciare niente”.
In questi versi Castagnola segnala una rielaborazione in chiave parodistica dei vv. 3-4 del sonetto De valoroso voler coronata di Guittone d’Arezzo: «en cui lo core, ‘l corpo e l’alm ho data / perfettamente senza alcun retegno»11.
L’espressione di “pienezza” in Cecco è volutamente ridondante ed esagerata, poiché presenta termini quali «interamente» e «senza alcun difetto»: come segnala Marti, è con essa che si raggiunge il culmine «della degradazione dallo spirituale al fisico»12.
Nell’espressione «in braccio ‘n braccio» del v. 6, inoltre, troviamo l’allitterazione dell’affricata palatale sorda geminata, il cui effetto fonico continua poi nel verso successivo con la ripetizione della corrispettiva affricata palatale sonora, in «maggior» e «cheggio».
Quest’ultimo è un termine diffuso nell’italiano antico, formazione analogica sulla base di verbi come “veggio” e “seggio”, i quali invece presentano il regolare esito palatale, dato dall’assimilazione del nesso costituito dall’occlusiva dentale sonora e il legamento palatale13.
Le osservazioni che si possono fare sul piano lessicale e retorico non sono disgiunte dal commento tematico del sonetto, il quale si presenta infatti sapientemente costruito e ponderato.
Si noti, ad esempio, la coppia «diletto» (v. 5) e «difetto» (v. 6): oltre a costituire una paronomasia, le due parole sono poste in rima, così da sottolineare ancora di più l’opposizione tra di esse, le quali esprimono rispettivamente piacere e mancanza.
La struttura del sonetto è inoltre abilmente calibrata, così da poter essere suddivisa in due momenti distinti: quello del «cattiveggiar», sviluppato nelle quartine, e quello del brusco risveglio «’n sul nїente», che caratterizza invece le terzine. La netta distinzione tra le due parti è sottolineata anche dal «Ma» avversativo con cui si apre la prima terzina. Esso dà avvio a una serie di disperate reazioni di Cecco, consapevole di ritrovarsi nella realtà, ben lontana da quanto precedentemente fantasticato.
Il tono inverosimile e comico dei suoi vaneggiamenti è confermato dall’uso del verbo “millantare” al v. 10: «millantato» mantiene infatti tutto il suo «esaltato colore fiabesco»14, come si può facilmente riscontrare nel termine del Decameron di Boccaccio, ripreso nella terza novella dell’ottava giornata: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta»15.
L’effetto comico è poi creato ancora una volta dall’iperbole al v. 11 «fo mille morti ‘l dì», che riprende in figura etimologica il «millantato» del v. 10 e rappresenta uno dei motivi più frequenti in Cecco, vale a dire quello delle molteplici morti quotidiane. Troviamo esempi nel sonetto II Eo ho sì tristo il cor di cose cento, al v. 2: «che cento – volte el dì penso morire»16 e nel sonetto Con gran malinconia sempre istò, al v. 7: «ché mille morti il dì ovie più fo»17.
L’ultima terzina, con i suoi versi collegati per polisindeto, descrive infine l’agitazione frenetica del poeta, descritti da immagini vivide ed evidenti. Al v. 13 l’allitterazione dell’occlusiva dentale sorda /t/ e dei suoni scuri /o/ e /u/ rende anche foneticamente l’effetto del turbamento che qui è più fisico che psicologico, come dimostrano il riferimento al sangue che ribolle nelle vene e l’iperbolico paragone con l’acqua che scorre.
L’ultimo verso del componimento crea invece un effetto di sorpresa nel lettore, dal momento che recita «ed avrò fin ch’ i’ serò ‘nnamorato», soffermandosi sul tema dell’amore che fino a questo momento sembrava essere marginale, se non del tutto estraneo al sonetto.
Si tratta forse di un ulteriore elemento parodistico, in cui perfino l’innamoramento, ideale potenzialmente nobilitante, è qui degradato tramite l’accostamento di desideri tutti terreni: il denaro, il possesso carnale della donna.
Con quest’ultimo assunto beffardo risulta compiuta la «volgare canzone» di cui parla Marti, i ritmi della quale sono scanditi da iperboli, rime ed effetti fonici caratteristici di uno stile basso, linguaggio intriso di termini popolari e di senesismi (si notino «piei» al v. 2, «diei»18, al v. 9, «fo», al v. 11, «serò» al v. 14).
Tuttavia è altrettanto da rilevare l’architettura del «sacro tempio», e cioè il costante richiamo alla tradizione stilnovistica e provenzale e la meditata costruzione formale, tramite cui Cecco dà un suo personale contributo al genere del plazer, inserendovi i suoi irriverenti elementi comici con ironia e raffinatezza.
NOTE:
1L. Lanza, op. cit., p. 116.
2M. Marti, op. cit., p. 175.
3Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/plazer/.
4M. Marti, op. cit., p. 175.
5Propriamente “assettare” viene dal verbo non attestato “*asseditare”, frequentativo di “sedere”. Il suo significato è quindi quello di “mettersi a sedere”, ma qui, come scrive Marti si tratta di «un accomodarsi tutto fantastico, un disporsi spiritualmente, un abbandonarsi con la fantasia» (Ibidem).
6La scelta della proposizione causale è presa in base alla lezione del codice Chig. L.VIII.305 «ched i», preferita al «quando» attestato concordemente da Esc. E.III.23 e Barb. lat. 3953 . Marti rileva infatti che «l’uso di “che” dopo “poi” è tipico angiolieresco». (M. Marti, op. cit., p. 175).
7Cfr. http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/.
8A. Lanza (a cura di), op. cit., p. 116.
9Marti considera il termine un calco dall’antico francese “chétif”, cioè “misero, infelice”.
10R. Castagnola (a cura di), op. cit., p. 159.
11G. d’Arezzo, Le Rime, a cura di F. Egidi, Laterza, Bari 1940, p. 179.
12M. Marti, op. cit., p. 175.
13In seguito le altre persone della coniugazione influenzeranno anche la prima singolare, portando all’esito odierno di “vedo”, “siedo”, “chiedo”.
14M. Marti, op. cit., p. 175.
15G. Bocaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Le Monnier, Firenze 1952, Vol. II, p. 321.
16A. Lanza (a cura di), op. cit., p. 5.
17Ivi, p. 229.
18Riguardo a questo termine, Vitale segnala come la rima possa essere salvaguardata se si pensa all’uso della forma senese “coliei” al posto del «colei» del v. 6. (M. Vitale (a cura di), op. cit., p. 317).