Analisi del Sonetto XCIII delle Rime di Cecco Angiolieri
a cura di Selene Mancuso
Sonetto XCIII
1 Analisi e commento
2 Tradizione manoscritta
Note
Sonetto XCIII
I’ son sì magro che quasi traluco
I’ son sì magro che quasi traluco,
de la persona no, ma de l’avere;
ed abbo tanto più a dar che avere
che m’è rimaso vie men d’un fistuco. 4Ed èmmi sì turato ogni mi’ buco
ch’i’ ho poc a dar e vie men che tenere:
ben m’è ancora rimas’un podere,
che frutta l’anno il valer d’un sambuco! 8Ma non ci ha forza, ch’i so ’nnamorato;
ché, s’i’ avesse più òr che non sale,
per me saria ’n poco temp’assommato. 11Or mi paresse almeno pur far male!
Ma com’ più struggo, più son avvïato
di voler far di nuovo capitale. 14
1 Analisi e commento
Il sonetto XCIII dell’edizione Lanza è collocabile nei componimenti facenti parte del cosiddetto ciclo della povertà.1
Cecco è così magro che quasi “traluce”, cioè è quasi trasparente. Il vocabolario degli Accademici della Crusca definisce tralucere come:
Risplendere, Rilucere, Trasmetter la luce, come fanno i corpi diafani, o quasi diafani; e si riferisce tanto ad essi corpi, quanto alla luce medesima. Lat. splendere, lucere, interlucere, translucere. Gr. στίλβειν, διαστίλβειν.2 |
Analogamente, il Battaglia riporta come primo significato:
Tralùcere. Splendere, rilucere attraverso un corpo diafano o molto rado, discontinuo; trapelare da fessure, crepe, spiragli (la luce, i raggi solari, ecc).3
Solo nella terza entrata fornisce la definizione di “apparire trasparente, lasciar vedere al di là; lasciarsi attraversare dalla luce; rivelare il contenuto essendo posto in controluce” e, in senso iperbolico, “alludere a una magrezza estrema”, riportando come esemplificazione proprio questo verso di Cecco.
Franca Brambilla Ageno, in un interessante articolo pubblicato sulla rivista «Studi Danteschi» nel 1970, analizza nel dettaglio il verbo “tralucere”, passando al vaglio le numerose sfaccettature che il lemma ha assunto nella tradizione letteraria a partire dall’antichità.4 Principalmente “tralucere” indica lo “splendere”, significato evidente, ad esempio, nel proverbio toscano «L’oro luce, la virtù riluce e il vizio traluce». Anche nella Commedia dantesca si incontra il significato di “risplendere”, “diffondere su, trarre bagliore da” o “rilucere”:
E s’altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.(Par. V, 10-12)
Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch’io fui Guido del Duca.(Purg. XIV, 79-81)
La cera di costoro e chi la duce
non sta d’un modo; e però sotto ‘l segno
ideale poi più e men traluce.(Par. XIII, 67-69)
Il senso di “rilucere” si trova anche nel Canzoniere di Petrarca:
Imaginata guida la conduce,
ché la vera è sotterra, anzi è nel cielo,
onde piú che mai chiara al cor traluce […](CCLXXVII, 9-11)
[…] tanta luce
dentro al mio core infra dal ciel traluce.(CCCLVII, 6-7)
Il significato di “trasparire”, invece, si rileva in un passo delle Rime dell’Alighieri, in cui si nota il verbo “tralucere” associato alla locuzione “di fuor”:
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra […]
(CIII, 29-30)
Tale valore si trova anche in Petrarca, in riferimento a un soggetto che non è luce, fonte di luce e nemmeno cosa illuminata; seguono alcuni passi esemplificativi:
Et per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio, 5
quasi visibilmente il cor traluce.(LXII, 4-6)
Già traluceva a’ begli occhi il mio core,
et l’alta fede non piú lor molesta.(CCCXVII, 5-6)
[…] dinanzi, una colonna
cristallina, et iv’entro ogni pensero
scritto, et for tralucea sí chiaramente,
che mi fea lieto, et sospirar sovente.(CIII, 27-30)
Ma freddo foco e paventosa seme
de l’alma che traluce come un vetro
talor sua dolce vista rasserena.(CIII, 28-30)
La duplicità del linguaggio, nota la Ageno, si riscontra in certa misura anche fra i Latini. Mentre Ovidio, descrivendo un nuotatore, usa translucet per “traspare” («In liquidis translucet aquis, ut eburnea siquis / signa tegat claro vel candida lilia vitro […]»),5 Lucrezio, parlando del gioco di luce creato da due specchi che si rimandano la stessa immagine, dice «Fit quoque de speculo in speculum ut tradatur imago»6 e ripete la stessa osservazione usando il verbo translucere per “riflettersi”: «usque adeo e speculo in speculum translucet imago»,7 cioè “tant’è vero che l’immagine si riflette da specchio a specchio”.
Il significato di “tralucere”, dunque, seppur immediato nel verso angiolieresco, si porta dietro un ricco bagaglio di significati che si sono succeduti uniformemente nella tradizione a partire dall’antichità e di cui si ritiene degna di nota la menzione ai fini di un’esauriente analisi linguistica del termine.
Cecco, sin dai primi versi del sonetto, lamenta la propria povertà, visibile non tanto nella magrezza del corpo quanto nella scarsezza dei propri fondi: il poeta senese è, infatti, indebitato fino al collo e gli è preclusa ogni possibilità di guadagno (Ed èmmi sì turato ogni mi’ buco, v. 5). La locuzione sì turato è emendamento del Massèra: egli ha sostituito il venuto men del Chigiano, che non dà senso e rende il verso ipermetro, con il sì turato dei codici Veronese e Ambrosiano (in realtà questi due manoscritti riportano sì curato, errore facilmente correggibile anche in rapporto alla rielaborazione burchiellesca, che riporta così turato).8 Il Marti riconduce le parole di Cecco al proverbio «Turare un buco per fare una tana», nel caso specifico “fronteggiare un debito piccolo facendone uno più grosso”.9
A Cecco rimane solo una terra che gli frutta una rendita ridicola (ben m’è ancora rimas’un podere, / che frutta l’anno il valer d’un sambuco! , vv. 7-8): il sambuco è, infatti, una pianta di nessun valore. Tutti gli editori mettono concordemente a testo la lezione valer, tranne il Giuliotti che inserisce nel verso valor, variante tramandata dal solo codice Ambrosiano che non lede il senso del verso, ma che è più banale rispetto a valer. Perfetta è la corrispondenza tematica di questo punto con uno dei testi più straordinari della poesia giocosa del Duecento, la Canzone del fi’ Aldobrandino, citata dal Lanza, in cui il protagonista si lamenta per lo scarso guadagno ricavato da alcune terre di sua proprietà sul Monte Malanno. Gli interessi sul capitale sono «dieci libbre di danno», durante le feste si aggiungono rimproveri e sberleffi e i suoi terreni producono non verdure ma sospiri, ci nevica sempre e non ci sono ripari:10
La dote n’aggio grande e smisurata:
pur li fideli ogni mese mi dànno
dece libre di danno,
e nelle pasque rampogne e balieri.
Io n’aggio un po’ ch’ha nom Monte Malanno, 80
che, senza seminarci mai derrata,
ne recolgo alla fiata
trenta, quaranta e cinquanta rasieri;
ma di che? De sospiri,
ch’altro arbor non ci nasce mai néd erba. 85
Grotta non ci ho né casa,
e la neve alta ci ha più di doe brazza,
e tutto l’anno lassù si conserba.
Molti ci van per traiercel di mano,
ma io non lo vendrei a cristiano.11 90
Interessante è anche il confronto con il sonetto di Bartolomeo da Sant’Angelo, Eo so’ sì rico de la povertate, vv. 5-8, in cui il poeta deplora la propria condizione di povertà dichiarando di possedere un terreno che non frutta niente (frate indica il terreno, cica è sinonimo di niente; da notare che in Cecco la locuzione a carrate vale come “in abbondanza”):12
Per ch’ i’ ho de posesione tante frate,
tra nichil e niente ed altre guise,
ch’ i’ ne recoglio a l’anno, cum’ se dise,
fra nula e cica ben mille carate.13
Se Cecco ha inserito nel sonetto elementi biografici precisi, il termine podere al v. 7 potrebbe riferirsi, come ipotizzò il Massèra, alla vigna che il poeta vendette a Neri Perini del popolo di S. Andrea il 5 febbraio 1302.14 Dato che Cecco parla del podere come di un proprio possedimento, il padre, precedente proprietario, dovrebbe essere a questa data morto: se così fosse, il sonetto potrebbe essere a buon diritto datato tra il 1296 (anno cui risalgono le ultime notizie del padre di Cecco come vivente) e il 1302, anno della vendita del terreno.
Lo sperpero di denaro, specifica il poeta, è legato all’innamoramento (Ma non ci ha forza, ch’i so ’nnamorato, v. 9): Cecco giustifica la sua miseria dietro il sentimento che lo tiene legato a Becchina e dietro ai soldi spesi per i capricci della sua signora; se anche avesse più oro di quanto sale c’è nel mondo, l’autore dichiara che dilapiderebbe in breve tempo tale somma da lui accumulata.
Benché in questo studio si propenda verso tale lettura del verso, si deve tuttavia far presente che l’interpretazione dell’espressione Ma non ci ha forza ha sollevato non pochi problemi: se Massèra, Steiner, Giuliotti e Stanganelli intendono “ma non c’è forza bastante che possa opporsi alla mia rovina”, ovvero “ma non c’è rimedio, perché sono innamorato”, Vitale e Lanza parafrasano, in modo meno convincente, “ma la miseria non conta nulla in confronto all’innamoramento”. La critica, dunque, si divide tra due concetti diversi: da un lato l’indigenza è vista con rassegnazione, come tragica e inevitabile conseguenza dell’amore; dall’altro, invece, i problemi connessi alla povertà sono minimizzati da quelli legati all’innamoramento.
Il termine assommato al v. 11 richiama perfettamente l’assommato del sonetto XCI:
non aspettar che tu abbi assommato,
ché troppo ti fia peggio che ‘l morire. 10
Cecco non si rende nemmeno conto di comportarsi male, non c’è nessuna moralità nel suo agire (Or mi paresse almeno pur far male!), lo scrupolo del poeta è solo di ordine economico ed è spiegato nei due versi successivi:15 più Cecco dissipa il patrimonio e più vorrebbe accumulare ancora denaro per sperperarlo nuovamente, in un circolo vizioso dal quale l’autore non riesce a uscire.
Il sonetto fu ripreso nell’incipit e nelle rime da Meo de’ Tolomei e, più tardi, dal Burchiello. Il primo dei due poeti fu per secoli totalmente dimenticato e molti suoi componimenti, conservati anonimi nel codice Chigiano L VIII 305 fra i sonetti di Cecco Angiolieri (peraltro anch’essi anonimi), furono attribuiti allo stesso Cecco. Nel 1914 fu ritrovato a Madrid il codice Escorialense e III 23 che conteneva, tra gli altri, alcuni testi di Cecco Angiolieri e cinque sonetti di Meo de’ Tolomei. La rima di Meo dall’incipit I’ son sì magro che quasi traluco compare proprio nell’ Escorialense alla c. 82v, con didascalia riferita a Meuçço de Talom[ey] da Siena:
I’ son sì magro, che quasi traluco,
de la persona, ma più de l’avere;
amico né parente ho, che vedere
mi voglia, sol per ch’or non vesto il luco; 4
e già del mi’ poco i’ me ne conduco,
ch’è ’n viver di speranza ch’ho d’avere:
e di quel tempo avess’io de le p ere,
ch’i mei non mi terranno così bruco. 8
Esser ho ricco, e ‘l modo saper parmi:
mia madre, Ciampolino e ’l Zeppa tanto
per me guadagnan, che non ho ch’a starmi. 11
Or mi rendessen del mi’ pur alquanto!
ché tutti tre, en ben assottigliarmi,
son Padre e Figlio con Spirito Santo. 14
La madre, il finto amico Ciampolino e il fratello Mino, detto lo Zeppa, sono una trinità coalizzata contro Meo per ridurlo sempre più in miseria e questa condizione miseranda porta con sé anche l’abbandono da parte di amici e conoscenti. Il tema dell’isolamento dovuto alla povertà, tradizionale nella poesia comico-realistica, in particolare senese (e soprattutto di Cecco), si incrocia con l’altro tema dell’accusa e di una feroce ostilità contro gli odiati parenti. In gran parte quella che anima la vivace immediatezza del sonetto non è che una posa letteraria, propria del genere “giocoso” contrapposto alle contemporanee finezze del Dolce stil novo; tuttavia non si può trascurare la realtà biografica dello sfortunato poeta.
Malgrado l’evidente didascalia del codice madrileno, Aldo Francesco Massèra, in un articolo del 1917, attribuì i sonetti dell’Escorialense a Cecco Angiolieri pubblicandone uno solo, l’unico inedito, I’ son sì magro che quasi traluco.16 Al Massèra non sorse il dubbio che i sonetti che il manoscritto attribuiva a Meo e che erano rivolti contro Mino fossero proprio opera di Meo de’ Tolomei, tant’è che nella sua edizione dei Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli continuò a includerli, compreso I’ son sì magro, fra i sonetti di Cecco.17 Lo Steiner continuava ancora nel 1925 a inserire questo componimento nel canzoniere angiolieresco.18
Nel 1934 Adele Todaro propose di attribuire a Meo de’ Tolomei alcuni sonetti considerati fino ad allora di Cecco Angiolieri;19 la studiosa azzardò l’ipotesi che i due sonetti in questione costituissero una tenzone basandosi unicamente sulla ripresa dell’incipit, sulle corrispondenze di più rime (-uco, -ere e le parole-rima traluco, avere), sullo stesso schema metrico e sulla “contrapposizione” tematica: se in un sonetto il poeta si lamenta delle proprie miserande condizioni, che si riflettono chiaramente non solo nel vivere gramo, ma anche nelle fattezze della persona, nell’altro l’autore limita gli effetti della povertà ai soli averi, tralasciando il corpo. Il Vitale, tuttavia, fece giustamente notare che queste non sono prove sufficienti per sostenere e confermare l’ipotesi di una tenzone.20
Il sonetto di Cecco ebbe un successo così grande che venne rielaborato nel XV secolo anche dal Burchiello, il cui componimento è tramandato dal ms. Ambrosiano C 35 sup:21
Io son sì magro, che quasi traluco
Della persona, e così dell’avere:
Che s’io vo per la via, son per cadere,
Sì poca è l’esca, di ch’io mi conduco. 4
Così ho io turato ogni mio buco,
Ch’io non ho più che dar, né che tenere;
Ma ben m’è certo rimaso un podere,
Che frutta l’anno un bel fior di Sambuco: 8
Ma non mi curo, sì sono avviato,
Che s’io avessi in man il Sangredale,
In picciol ora si saria fondato: 11
E d’ogni mio principio arrivo male,
Di collo ad ogni amico io son cascato,
Nimico mi diventa ogni mortale: 14
Gli Uccei, che batton l’ale,
E gli Animai, che son sopra la terra,
Le bestie, e fiere, ognuna mi fa guerra. 17
Anche quando utilizza vecchi topoi della tradizione comico-realistica, come, ad esempio, il tema della povertà, il Burchiello lo fa in modo del tutto personale, infondendovi nuova linfa vitale. Così, pur rifacendosi sin dall’incipit a un fortunato sonetto di Cecco Angiolieri, a suo tempo rivisitato dallo stesso Meo de’ Tolomei, egli rimodella radicalmente la materia alla luce della sua drammatica esperienza biografica: per il Burchiello, insomma, l’indigenza non è un motivo letterario, ma un problema quotidiano. E difatti, mentre Cecco dichiarava di tralucere, cioè di essere trasparente, de la persona no, ma de l’avere, il Burchiello precisa subito inequivocabilmente della persona e così dell’avere e prosegue su questa strada insistendo sul motivo della fame, un problema vero da affrontare e non un mero espediente letterario. Cecco, inoltre, al termine del sonetto inserisce la tematica amorosa, mentre il Burchiello preferisce continuare sul leitmotiv del componimento, senza giustificare la mancanza di denaro dietro i capricci dell’eros.22
2 Tradizione manoscritta
I’ son sì magro che quasi traluco è il sonetto numero 420 del Chigiano L VIII 305, intestato a Cecco, ed è tramandato anche dall’ Ambrosiano O 63 Sup, c. 15, intestato a Petrus de Senis, dal Capitolare Veronese 445, c. 43, intestato allo stesso Cecco, e dall’Escorialense, c. 86v, adespoto.
Interessante è notare che nell’Ambrosiano il sonetto di Cecco è attribuito a Petrus de Senis, con ogni probabilità Pietro di Viviano da Siena, detto Pietro Cantarino:23 il Massèra ipotizzò che Pietro avesse trovato il sonetto di Cecco in un qualche zibaldone di rime antiche, magari tramandato anonimo, appropriandosene indebitamente, oppure che il copista si fosse lasciato ingannare dall’antigrafo da cui stava trascrivendo il codice. Questo particolare, seppur non significativo per lo studio del sonetto angiolieresco, contribuisce tuttavia a confermare il giudizio degli studiosi sull’inaffidabilità dell’Ambrosiano per quanto riguarda le didascalie dei componimenti.24
Il Massèra notò delle forti corrispondenze tra i codici Ambrosiano (A) e Veronese (V) che allontanavano questi due testimoni dal Chigiano (C);25 le divergente tra il gruppo A-V e il ramo C (considerato dagli studiosi il codice più autorevole), sono tali da farci considerare la lezione di quei due testimoni quale rifacimento piuttosto che quale copia della lezione del Chigiano. Il testo dei codici A, V e dell’Escorialense (E) in una prima analisi sembrerebbe contaminato da alcuni versi di Meo de’ Tolomei (v. 2) e del Burchiello (vv. 9-11), oltre che innovato da varianti proprie (v. 14):26
I’ son sì magro che quasi traluco,
de la persona, ma più de l’avere;
ed abbo tanto più a dar che avere
che m’è rimaso vie men d’un fistuco. 4
Ed èmmi sì turato ogni mi’ buco
ch’i’ ho poc a dar e vie men che tenere:
ben m’è ancora rimas’un podere,
che frutta l’anno il valer d’un sambuco! 8
Ma lascia andare, ch’i son ben aviato;
che s’io avessi in man il Sangredale,
in picciol tempo l’avrei consumato. 11
Or mi paresse almeno pur far male!
Ma com’ più struggo, più son avvïato
di far di vecchio nuovo capitale. 14
La cronologia, tuttavia, non ammette la contaminazione con il testo del Burchiello, perché, anche se l’Ambrosiano si può datare all’incirca al XV secolo, periodo in cui visse il poeta burlesco, il codice Veronese risale al 1375-1400, mentre l’Escorialense addirittura al XIII-XIV secolo: essendo il Burchiello vissuto tra il 1390/1400-1449, è impossibile che il sonetto di Cecco sia stato contaminato col componimento di un autore a lui posteriore.
Fabian Alfie, in un interessante intervento del 1998 su «Italian Quarterly», individua due rami, α (E, V, A) e β (C), e traccia il seguente albero:27
Lo studioso americano sostiene, dunque, che Meo de’ Tolomei e il Burchiello si siano ispirati alla versione α, tramandata dalla maggioranza dei testimoni. Tuttavia, non essendoci elementi specifici che possano indicarci con certezza la mano dell’autore, non è possibile sapere se ci si trovi di fronte ad una variante d’autore o se tale versione sia il rifacimento anonimo di un altro poeta; ciò che ci è permesso constatare è che «the medieval artistic concept of inventio […] in no way acts to restrict these poets, but rather, gives them the freedom to introduce new elements while maintaining the force of tradition».28
NOTE:
1 Cfr., ad esempio, i sonetti lxv, lxxxvii, lxxxix, xci, xcvi, ci, ma molti altri potrebbero essere inseriti nel novero.
2 Vocabolario degli Accademici della Crusca, Firenze, IV edizione (1729-1738), vol. 5, p. 123.
3 GDLI. Grande Dizionario della Lingua Italiana, a cura di S. Battaglia, Torino, UTET, 1961-2002, vol. xxi, p. 143.
4 F. Brambilla Ageno, Il verbo tralucere nella Divina Commedia, in «Studi Danteschi», XLVIII, 1970, pp. 5-14.
5 P. Ovidio Nasone, Metamorfosi IV, vv. 354-355, Milano, BUR, p. 244.
6 T. Lucrezio Caro, De Rerum Natura IV, v. 303, Milano, Mondadori, p. 258.
7 T. Lucrezio Caro, De Rerum Natura IV, v. 308, Milano, Mondadori, p. 258.
8 Massèra, I sonetti, p. 113. Della rielaborazione burchiellesca si parlerà in seguito.
9 Marti, Poeti giocosi, p. 211.
10 Lanza, Le Rime, p. 186.
11 G. Contini, Poeti del Duecento, II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. 440.
12 Cfr. ad esempio il v. 2 del sonetto XVII, Se tutta l’acqua balsamo tornasse.
13 Marti, Poeti giocosi, p. 345.
14 Massèra, I sonetti, p. 115.
15 Marti, Poeti giocosi, p. 211.
16 A.F. Massèra, Nuovi sonetti di Cecco Angiolieri, in «Studi Romanzi», XIII, 1917, pp. 77-97. A p. 78 leggiamo: «[…] In origine dovett’essere forse segnato çecho anche in capo al componimento iniziale di 82 v, come fu premesso il solito Idem ai successivi della stessa facciata: e così Cecco venne designato come l’autore di tutta la preziosa raccoltina. Ma più tardi a quell’ultima indicazione fu sostituita la dicitura Meuçço de talom[ey] da siena, che cambierebbe anche il significato dei quattro Idem indipendenti: se non che la correzione o sostituzione non può esser da noi tenuta in alcun conto, perché contraddetta dalla indiscutibile paternità angiolieresca di tutte quante le poesie di 82v». E aggiunge in nota: «Quella, a cui direttamente si riferisce l’attribuzione a Meuzzo Tolomei, è qui oltre, n° 9; essa porta nel v. 10 il suggello della sua genuina provenienza. I quattro sonetti seguenti, già compresi nell’edizione, s’appuntano tutti contro Min Zeppa, e il primo anche contro la madre del poeta». Più avanti, quando a p. 89 il Massèra introduce il sonetto da lui numerato 9, ossia I’ son sì magro che quasi traluco, leggiamo: «[…] segue poscia una specie di replica (n° 9), notevole particolarmente perché nelle sarcastiche terzine il poeta riunisce insieme nel vituperio la madre, Min Zeppa e Ciampolino: singolare trinità di spogliatori e tormentatori del povero Cecco».
17 A.F. Massèra, Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, 2 voll., Bari, Laterza, 1920.
18 C. Angiolieri, Il Canzoniere, introduzione e commento a cura di C. Steiner, Torino, Utet, 1925. Troviamo il sonetto di Meo, numerato CX, alle pp. 115-116.
19 A. Todaro, Sull’autenticità dei sonetti attribuiti a Cecco Angiolieri, Palermo, Boccone del povero, 1934, pp. 77-79.
20 M. Vitale, Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, Torino, Utet, 1956. L’affermazione è estratta dal volume I, p. 384 e dal volume II, p. 19.
21 Il testo è citato dal Massèra, I sonetti, p. 114, che riporta in nota anche il testo dell’edizione Giuntina (Firenze, 1552). Gianfranco Contini dedicò un breve studio a questo componimento, mediante il quale si può meglio delimitare il sonetto di Cecco e misurare con sufficiente probabilità l’iniziativa del Burchiello nella manipolazione del testo (G. Contini, Postilla angiolieresca, in «Studi di filologia italiana», XXII, 1964, pp. 581-586).
22 A. Lanza, Polemiche e berte letterarie nella Firenze del primo Rinascimento (1375-1449), Roma, Bulzoni, 1972, pp. 353-354
23 Nuove e aggiornate informazioni biografiche su Pietro da Siena sono fornite dallo studio di B. Pagliari, Pietro da Siena: un cantarino a servizio della repubblica, in «Studi di erudizione e filologia italiana», I, 2012, pp. 7-51, cui rimando per l’ampia bibliografia di riferimento.
24 Massèra, I sonetti, p. xxvii.
25 Come già detto in precedenza, l’Escorialense non era ancora stato scoperto quando il Massèra curò l’edizione dei sonetti di Cecco; tuttavia adesso sappiamo che anche l’esemplare madrileno ha le medesime caratteristiche di O e V.
26 Questa versione del testo si può ricostruire grazie all’apparato critico del Massèra (Massèra, I sonetti, p. 113) e allo studio di Alfie, I’ son sì magro, p. 25.
27 In realtà, per semplificarne la lettura, si è preferito qui rielaborare l’albero proposto da Alfie. Lo studioso americano, infatti, inserisce nel suo stemma anche il componimento del Burchiello tramandato dall’ Ambrosiano C 35 (manoscritto da lui siglato C), ponendolo, alla pari con gli altri codici, in dipendenza da α e generando, a mio parere, confusione.
28 Alfie, I’ son sì magro, p. 24.