Analisi del Sonetto II: Eo ho sì tristo il cor di cose cento.

Eo ho sì tristo il cor di cose cento
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Analisi del Sonetto II: Eo ho sì tristo il cor di cose cento.

a cura di Silvia Ciampi


 Sonetto II

Eo ho sì tristo il cor di cose cento

Eo ho sì tristo il cor di cose cento
che cento – volte el dì penso morire,
avvegna che ‘l morir – mi fora abento,
ch’eo non ho abento – se non di dormire;

e nel dormir – ho tanto di tormento 5
che di tormento – non posso guarire:

ma ben guarire – poria en un momento,
se un momento – avesse quella, che ire

mi fa tanto dolente, en fede mia,
che mia – non par che sia alcuna cosa, 10
altro che cosa – corrucci osa e ria.

Ed è sì ria – la mia vita dogliosa
ch’eo so’ doglios’ a – chi mi scontra en via,
e via – non veggio che mai aggia posa.

Questo sonetto di Cecco Angiolieri fa parte di un manoscritto molto importante: il codice Barberiniano XLV 47, oggi passato alla biblioteca Vaticana con il numero 3953 del fondo Barberiniano-latino. Fu allestito da Niccolò De’ Rossi, poeta trevisano della prima metà del ’300. La seconda parte del manoscritto contiene ventisei sonetti composti da Cecco Angiolieri, tra cui anche quello che prenderò in esame. Ogni componimento è accompagnato dal nome dell’autore, quindi, in questo caso, non ci sono problemi di attribuzione e possiamo affermare con certezza che questo sonetto è stato composto da Cecco.

Il codice Barberiniano, però, presenta anche una questione abbastanza complessa: dal momento che fu concepito in ambiente trevisano, è caratterizzato da forme dialettali grafiche e fonetiche di origine veneta. Capita spesso che un copista si faccia influenzare dal dialetto del proprio territorio, a volte di proposito, altre volte involontariamente; sta al filologo capire quali sono le lezioni da correggere senza andare contro la volontà dell’autore. In questo caso, quindi, gli editori non hanno esitato a modificare i tratti dialettali. Cecco, essendo senese, non avrebbe mai inserito forme tipiche dell’area linguistica veneta, che, invece, sono da attribuire alla mano del De’ Rossi. Tra i versi riportati dal Barberiniano troviamo vocaboli come corruzosa, doioso, vezo, aza, del tutto estranei al dialetto senese, quindi totalmente fuori dal campo linguistico di Cecco Angiolieri. Gli editori, primo fra tutti Massèra, hanno corretto i termini sopracitati rispettivamente in corrucciosa, doglios’a, veggio, aggia. Notiamo, infatti, che nella lezione del De’ Rossi questi vocaboli sono caratterizzati dallo scempiamento della geminata intervocalica, fenomeno linguistico tipico dei dialetti settentrionali e del tutto assente nell’area toscana. Di conseguenza gli editori si sono sentiti giustamente autorizzati a ricostruire l’originaria forma senese scelta da Cecco Angiolieri.

Nella prima quartina Cecco esordisce subito in prima persona affermando di avere il cuore tanto triste a causa di cento motivi, da essere spinto a temere di morire cento volte in un solo giorno. La morte potrebbe essere l’unico modo per ottenere tranquillità, dal momento che non riesce a riposarsi neppure dormendo. Il penso del secondo verso non va inteso con il significato di sperare; la morte, infatti, non è un desiderio del poeta, ma un timore. All’inizio del terzo verso troviamo il nesso avvegna che, congiunzione subordinativa dell’uso antico, usata spesso da Cecco con significato concessivo, quindi viene utilizzata anche qui per introdurre una subordinata di tal genere. Il sostantivo abento è un sicilianismo e significa riposo, tranquillità; sulla sua etimologia mi soffermerò più avanti. Particolare è poi l’uso, al verso quattro, dell’infinito preceduto dalla preposizione di, che assume un significato strumentale: Cecco non trova riposo neanche per mezzo del dormire.

Nella seconda quartina e nella prima terzina il poeta continua dicendo che nel sonno ha tanto tormento che da esso non può guarire, ma potrebbe guarire in un solo istante, se avesse con sé colei che continua a farlo vivere nel dolore, tanto che ha come l’impressione che non gli appartenga più niente, se non tutto ciò che è fastidioso e spregevole. Con l’ultima strofa conclude affermando con tono amareggiato che la sua vita dolorosa è così cattiva, che egli risulta sgradito a chi incontra per la strada e non riesce a trovare un modo con il quale ottenere facilmente riposo.

Gli argomenti e i temi affrontati nel sonetto sono chiari e ben comprensibili. Cecco è tormentato e costretto a vivere continuamente nel dolore a causa di un solo motivo: l’assenza della donna amata. La sua vicinanza, anche solo per un momento, sarebbe l’unica soluzione agli affanni, ma la realtà è molto più dura. Ogni sforzo personale è inutile, quindi il poeta si rassegna di fronte agli eventi e arriva a comprendere un’amara verità: non c’è via d’uscita e non esiste alcuna possibilità di cambiamento. Il tormento e la rassegnazione, presenti dal primo all’ultimo verso, rappresentano la trama di fondo di tutto il sonetto. Si parla di sonno, di morte, di impossibilità di guarigione, non c’è spazio per i sentimenti positivi. Ogni cosa che ruota attorno alla vita di Cecco è corrucciosa e ria.

I versi di questo sonetto potrebbero essere facilmente attribuiti a un poeta stilnovista. I temi trattati e il lessico utilizzato rientrano perfettamente tra i canoni di questa corrente poetica. Ma, come sappiamo, l’autore è Cecco Angiolieri, conosciuto per le sue doti di poeta comico-realista e per i suoi versi giocosi e talvolta parodici. Allora perché, in questo caso, sceglie di fare uso di uno stile alto e totalmente lontano dal suo modo di poetare? Alcuni potrebbero essere indotti a pensare che si tratti di una parodia; Cecco, infatti, in molti suoi sonetti, inserisce riferimenti alla tradizione aulica, ma esclusivamente per prenderla in giro. In questo sonetto mancano gli aspetti principali per poter parlare di parodia, non c’è nessun elemento caricaturale. Una grande quantità di artifici retorici ricollegano il componimento alla tradizione illustre, anche se non lo collocano proprio sul piano di una lirica strettamente aulica. Quindi, escluso il fatto che possa trattarsi di una parodia, dobbiamo capire il vero motivo che ha spinto il poeta a comporre un sonetto tanto diverso e tanto distante dalla sua produzione poetica.

Mario Marti e Antonio Lanza sono d’accordo sul considerare questo sonetto un componimento appartenente al periodo giovanile di Cecco Angiolieri. Secondo questi due critici, il poeta, quando iniziò a dedicarsi all’attività letteraria, prese come modello e come fonte di ispirazione il mondo dello stilnovismo e di tutta la lirica aulica precedente a questa corrente poetica, ovvero i poeti della Scuola Siciliana e in particolar modo Guittone d’Arezzo. I primi tre sonetti della classificazione del Lanza sono infatti definiti “guittoniani”. Quindi, in questi versi, l’Angiolieri utilizza uno stile elevato non per fare una parodia, ma semplicemente per confrontarsi con la tradizione poetica a lui contemporanea. Dobbiamo immaginarci un Cecco ancora giovane e inesperto che, prima di intraprendere una strada propria in campo poetico, sente la necessità di mettersi alla prova e di esercitarsi con quello che la tradizione gli presenta. Questo sonetto è un puro esercizio retorico e stilistico, che serve al poeta per dimostrare a tutti, ma prima di tutto a se stesso, cosa è in grado di fare. La caratteristica più significativa è l’uso della rima al mezzo, che rappresenta una presa di coscienza, da parte dell’autore, delle sue possibilità tecniche e una sfida da pari a pari con i più dotati rimatori siculo-toscani.

La rima al mezzo, molto usata da Cavalcanti, frequente in Dante, poi di uso sempre più raro, divide il verso, in questo caso endecasillabo, in due emistichi. Secondo il principio della rima al mezzo, l’ultima parola di un verso rima con l’ultima del primo emistichio del verso successivo. Cento, ad esempio, che è l’ultima parola del primo verso, è in rima con cento, ultima parola del primo emistichio del secondo verso. Per enfatizzare ancora di più l’effetto della rima al mezzo, Cecco Angiolieri decide di impiegare rime identiche.

Nel testo, però, esistono alcune eccezioni. Quando il vocabolo che si trova in fine di verso è un verbo all’infinito, al termine dell’emistichio successivo ci aspettiamo di trovare lo stesso verbo, ma in questo caso l’infinito è tronco, quindi viene meno la condizione di omografia. Morire del secondo verso è in rima con morir, che si trova alla fine dell’emistichio successivo; dormire del quarto verso con dormir e, infine, guarire del sesto con guarir. Un caso a parte è rappresentato da ire dell’ottavo verso, ma ne parleremo più avanti. È probabile che gli infiniti siano tronchi per ragioni metriche, infatti, solo in questo modo, è possibile ottenere un endecasillabo perfetto.

Le rime al mezzo non sono tutte identiche. In un solo caso è corretto parlare di rima equivoca, quindi di un tipo di rima che prevede l’omografia tra i due termini, che però divergono dal punto di vista semantico. È il caso di via, parola che conclude il tredicesimo verso e che ritroviamo nel primo emistichio del verso successivo. Dobbiamo parlare di rima equivoca perché questi due termini, nonostante presentino la stessa grafia, assumono due significati diversi. Il via del penultimo verso sta per strada in senso fisico: il poeta risulta sgradito a chi incontra per la strada. Al verso successivo, invece, il termine significa modo, maniera, ha un senso più astratto: Cecco non trova via d’uscita.

Non dobbiamo dimenticarci che siamo di fronte a un sonetto, quindi, oltre alla rima al mezzo, esiste anche un altro tipo di rima, in questo caso alternata (ABAB per le quartine, CDC per le terzine). Il componimento è dunque ingabbiato all’interno di un complesso sistema di rime. Ogni parola di fine verso fa rima con quella finale del primo emistichio del verso che segue e anche con quelle che terminano i versi successivi, in base alle regole della rima alternata. Per esempio Cento, oltre a rimare con cento secondo il meccanismo della rima al mezzo, è in rima anche con abento, tormento e momento. Si crea quindi un flusso continuo all’interno del quale spiccano i vocaboli che il poeta ha messo in rima, che diventano automaticamente le parole-chiave del sonetto.

Per quanto riguarda il meccanismo della rima al mezzo c’è una particolarità degna di nota. L’endecasillabo, in due casi, non presenta la divisione in due emistichi: nel primo e nel nono verso, cioè il primo della seconda terzina. L’assenza dei semiversi in fase iniziale è giustificata dal fatto che sarebbe stato impossibile far rimare la parola finale del primo emistichio con quella del verso precedente, dal momento che, trattandosi del primo verso, non può essere preceduto da un altro. Il nono verso presenta, invece, una situazione abbastanza particolare. Tra l’ottavo e il nono verso il poeta, infatti, inserisce un fortissimo enjambement, l’unico di tutto il sonetto, quindi, proprio per questo, posto in maggiore risalto. Oltre a ciò, questa figura retorica risulta essere molto forte e marcata a causa della sua posizione: si trova, infatti, a cavallo tra la seconda quartina e la prima terzina, proprio nel punto centrale del sonetto, nel momento in cui avviene il passaggio tra fronte e sirma. Come ho già accennato, questo punto del sonetto risulta particolare anche per un altro motivo: l’assenza della rima al mezzo. Il termine ire, posizionato alla fine della seconda quartina, non ha il corrispettivo in rima identica, come invece ci si aspetterebbe. Si crea quindi un brusco passaggio accentuato da molte caratteristiche: l’enjambement, l’assenza della rima al mezzo, quindi il mancato collegamento tra i due versi tramite una parola comune e il cambiamento da quartina a terzina. Sicuramente tutte queste particolarità hanno un significato, Cecco non ha fatto queste scelte in modo casuale, ma dietro a tutto ciò c’è un grande lavoro e un appassionato studio stilistico e retorico. Ci troviamo, infatti, di fronte a un punto di svolta, un punto cruciale del componimento. La rima al mezzo ha la funzione di unire due versi, creando un flusso continuo che attraversa tutto il componimento. All’ottavo verso si verifica l’interruzione di questa catena, ma solo in apparenza. In realtà, più che di interruzione, sarebbe corretto parlare di cambiamento, di sostituzione. A parte la rima al mezzo, infatti, esiste un altro modo per collegare due versi: l’enjambement. Cecco, in questo passaggio, riesce a dimostrare cosa è veramente in grado di fare. Questo è uno dei tanti motivi per cui il sonetto va visto come un puro esercizio retorico e stilistico.

Inoltre, l’unico termine del sonetto che non presenta la rima al mezzo non è scelto a caso. Si tratta infatti di un infinito della terza coniugazione, quindi come morire, dormire e guarire dei versi precedenti. Ire ha il compito di chiudere la prima parte del sonetto, quindi è come se mettesse un fine alla rima in –ire che ha caratterizzato le due quartine e che, per questo, non può proseguire anche nelle terzine, dove avviene un cambiamento. Anche dal punto di vista semantico questo verbo ha un compito importante. Quella che ire mi fa tanto dolente, se parafrasato, diventa “colei che continua a farmi vivere nel dolore”. Il verbo ire, quindi, rende la frase continuativa, contribuendo ad aumentare l’effetto dell’enjambement. È come se l’ottavo verso si prolungasse fino ad inglobare anche il verso seguente.

Proseguendo nell’analisi ci rendiamo conto che c’è anche un legame tra questo passaggio improvviso e il contenuto dei versi stessi. È questo infatti il punto in cui si fa riferimento alla donna amata. Se si facesse viva sarebbe possibile un miglioramento della situazione del poeta. La possibilità per un eventuale cambiamento la troviamo, quindi, rispecchiata nella struttura dei due versi. Appena irrompe l’immagine femminile, grazie al periodo ipotetico messo in evidenza, è come se il poeta perdesse per un momento il controllo della rigida struttura metrica, dimenticandosi della rima al mezzo e lasciando scivolare le parole tramite il forte enjambement. Per un attimo si affaccia la speranza che il tormento che lo tiene schiavo sia finito e di conseguenza, a livello metrico, viene meno anche il rigido schema della rima al mezzo che tiene ingabbiato il sonetto. Poi, appena terminata l’ipotesi, Cecco si rende conto di qual è la dura realtà e torna ad inserire le sue parole nella rigorosa struttura che per un attimo sembrava essere persa. Così anche nelle due terzine torna a ripetersi la costruzione metrica iniziale, come una gabbia dalla quale il poeta non è veramente in grado di liberarsi.

Come già detto, l’intento principale di Cecco Angiolieri è quello di dimostrare la sua abilità tecnica e la sua capacità di confrontarsi senza problemi con la tradizione. Non a caso questo sonetto è considerato di impianto guittoniano. L’Angiolieri riprende l’uso della rima al mezzo proprio da Guittone d’Arezzo, in particolare dal sonetto Già lungiamente sono stato punto:

Già lungiamente sono stato punto,
sì punto – m’àve la noiosa gente,
dicendo de savere uve mi punto;
sì tal punto – mi fa quasi piangente.

Poi, se·mmi miro, non credone punto, 5
sì punto – so’, ‘ve ‘n stando onor v’è gente,
poi lo mïo voler de gioi à punto,
che punto – è verso, sì face è piangente.

Ferò como lo bono arcero face:
face – fa de fedire in tal parte, 10
sparte – di ciò, u’ non par badi, fede.

A tutti amanti sì de’ farse face:
isface – ciò de penser l’aversa parte,
parte – che vive inn-error de su’ fede.

Anche questo componimento rispetta lo schema della rima al mezzo, tutte le rime sono tendenzialmente equivoche, anche quelle in fine di verso. Guittone ha sicuramente osato di più rispetto a Cecco Angiolieri; troviamo ben otto volte il termine punto, sempre in rima equivoca, infatti in ogni verso assume un significato diverso. Notiamo una differenza tra i due poeti per quanto riguarda l’uso della rima al mezzo: Guittone non divide mai in due emistichi il primo verso di ogni strofa, mentre Cecco, come abbiamo visto, adotta questo metodo soltanto per il primo verso e per il nono, dove inserisce anche l’enjambement. Il poeta aretino quindi annulla il legame tra una strofa e l’altra e ognuna di esse, essendo occupata da un periodo, diventa un nucleo isolato. È molto probabile, dunque, che Cecco, mentre scriveva i suoi versi, avesse in mente questo sonetto guittoniano. Egli è stato in grado di giocare in maniera disinvolta con la rima al mezzo, proponendo anche dei cambiamenti e delle innovazioni rispetto a Guittone. Il poeta senese è riuscito a prendere in mano la tradizione a lui precedente e, non solo a padroneggiarla, ma soprattutto a rielaborarla.

Oltre al riferimento a Guittone d’Arezzo, all’interno del sonetto è possibile scorgere altri punti per cui questi versi del poeta senese potrebbero essere stati scritti da uno stilnovista o da un siculo-toscano. La fraseologia è fortemente sicilianeggiante. Ci sono molti artifici che collegano il sonetto alla tradizione illustre, molti di essi si trovano nel terzo verso della prima quartina. Morir è un infinito sostantivato, caratteristica tipica di uno stile alto e totalmente estraneo al tono familiare e conversativo utilizzato di solito da Cecco Angiolieri, così come lo è il fora, l’elegante condizionale che innalza il tono di tutto il verso. Degno di nota è il sostantivo abento, tipico dei poeti siciliani e siculo-toscani, come Cielo d’Alcamo e Giacomo da Lentini. Questo termine è un adattamento toscano di una voce siciliana, abbentu, risalente al latino adventus. Abbentu, voce viva in Sicilia, è stata originata da a bentu, che significa “da vento”. Inizialmente con questo termine si indicavano le barche ormeggiate al porto, che erano, appunto, al riparo dal vento, quindi in un luogo tranquillo. Il significato si è poi ampliato e infatti nel sonetto di Cecco vale per calma, riposo, quiete.

Nella seconda quartina ci imbattiamo in porìa, uso antico e poetico del verbo “potere”. Anche l’infinito latino ire contribuisce ad innalzare lo stile dell’intero componimento, così come l’aggettivo ria all’undicesimo verso.

Cecco, dunque, prima di affermarsi come poeta comico-realista, ha provato a confrontarsi con la tradizione. Un poeta alle prime armi, come lo era probabilmente l’Angiolieri quando compose questi versi, non inizia mai la propria attività letteraria in un ambiente arido, privo di stimoli e senza alcun riferimento, ma esiste sempre una cultura e una tradizione che non possono essere ignorate. Con l’impiego della rima al mezzo il poeta senese dimostra di essere abile quanto Guittone d’Arezzo e con la scelta di uno stile e di un lessico alto si accosta molto ai più grandi stilnovisti. La sua intenzione è quella di inserirsi all’interno di una precisa tradizione, per poi prendere una strada propria. Non si tratta certo di un apprendimento passivo. Cecco si mette continuamente alla prova.

In mezzo a tutti questi artifici retorici, ai latinismi e al complesso sistema delle rime, è possibile scorgere alcuni elementi che anticipano la svolta poetica che compirà Cecco dopo aver composto i tre sonetti “guittoniani”. Non sono presenti sfumature parodistiche o ironiche, ci sono però alcuni elementi di espressione realistica: non ho abento se non di dormire; se un momento avesse quella; so doglios’a chi mi scontra in via. Queste immagini ci fanno capire che probabilmente Cecco Angiolieri, quando compose questo sonetto, sapeva già quale inclinazione avrebbe intrapreso in futuro. Quindi, si esercita con lo stile alto soltanto per mettersi alla prova prima di affermarsi come poeta comico-realista.

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