Tito Lucrezio Caro

Lucrezio e il de rerum natura
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Tito Lucrezio Caro

Lucrezio e il de rerum natura

Vita e opera di Tito Lucrezio Caro

VITA (98-55)

Non abbiamo notizie certe sulla vita di Lucrezio. San Girolamo dice che nacque nel 94/93 a.C., che impazzì per aver assunto un FILTRO D’AMORE e si suicidò a quarantaquattro anni.
Elio Donato faceva coincidere il suicidio di Lucrezio con l’assunzione della toga virile di Virgilio nel 55. Ma in quell’anno Virgilio non aveva ancora 17 anni, bensì 15. Forse l’anno della toga virile era stato spostato al quindicesimo anno di età, o forse Virgilio era considerato diciassettenne già nel 45 a.C., a seguito di confusioni col nuovo calendario Giuliano.
Se Lucrezio morì a quarantaquattro anni, la sua data di nascita è allora il 99/98. Gli studiosi delimitano solitamente la sua vita tra 98 e 55 a.C. .
Anche la sua famiglia è di origine non nota. C’è chi dice fosse una casata aristocratica.
Più sicuri furono i suoi rapporti con GAIO MEMMIO, dedicatario della sua opera. Fu amico anche di Cicerone, che probabilmente curò in persona la pubblicazione del poema e proprio nel 55 a.C. ne parla in una lettera al fratello Quinto, nella quale si ricava la notizia della morte di Lucrezio.
La “follia” del poeta è probabilmente un’invenzione, avvalorata in ambiente cristiano per le idee materialiste e antiprovvidenziali della dottrina che Lucrezio diffondeva.

OPERA

DE RERUM NATURA

Il De Rerum Natura è un poema didascalico in 6 LIBRI, che espone le dottrine epicuree, a partire dalla fisica “atomistica”. Lucrezio si vanta di essere il primo vero divulgatore di tale dottrina.
Lo stesso Cicerone, che aveva duramente criticato gli sciatti divulgatori in prosa (pur riconoscendone l’ampia eco tra il volgo), non si esprime sull’opera di Lucrezio e non se ne capisce il motivo. Nella lettera a Quinto ne fa cenno con un misurato e pur sincero apprezzamento. Forse sentiva il poema estraneo al suo stile e non aveva la necessità di commentarlo, ma ciò contrasta con la sua sincerità intellettuale e con l’ipotesi che fu lui stesso a curarne l’edizione postuma.

DESTINATARIO E PUBBLICO:
Il pubblico di Lucrezio è, come quello di Cicerone, colto ma non elitario. Il destinatario, Gaio Memmio, incarna l’ideale (mai astratto) di lettore-discepolo a cui spesso Lucrezio si rivolge come a una persona colta ma bisognosa dei suoi insegnamenti.

LA FORMA POETICA:
Lucrezio sceglie la poesia come veicolo per la dottrina epicurea per rendere l’opera più attraente al pubblico colto, nonostante l’avversione di EPICURO stesso per questo genere, visto come un traviamento di una resa chiara e disadorna.
Lo stile poetico non è però semplicemente subordinato al contenuto: il messaggio filosofico è inscindibile dalla sua veste letteraria. Lo stile è ora più solenne, ora più “duro”, per esprimere il messaggio scientifico. La poesia epica è scelta dall’autore anche per la sua potenza espressiva atta a narrare la grandezza e la solennità dell’ispirazione lucreziana.

Il genere didascalico non aveva avuto una vera tradizione romana, come c’era stata in Grecia. Nella lotta di Epicuro per affermare la sua dottrina, Lucrezio trova un argomento abbastanza “avvincente” per istruire i lettori attraverso un linguaggio epico che riprenda quello narrativo. Egli vuole toglierlo dal suo ambito di distacco con il grande pubblico. Nel rispecchiare la natura, Lucrezio usa stili diversi ma ben amalgamati tra loro.

FINALI E PROEMI:
Lucrezio si avvale del principio alessandrino per cui ogni libro è un’entità in sé compatta e perfettamente inquadrata nell’architettura complessiva. Ogni libro si apre con un proemio e ha un finale che si riallaccia al libro che seguirà.

Il libro I pone l’ “INNO A VENERE” prima del proemio.
I proemi dei libri I, III, V, VI sono dedicati alla celebrazione di Epicuro.

  • PROEMIO II LIBRO: 
    Qui troviamo un nobile esempio della varietà di stili di Lucrezio. Si parte con lo spettatore che guarda le navi travolte dalla tempesta ed è felice di non parteciparvi. L’immagine si fonde con il saggio che, dall’alto della sua dottrina, guarda con compiaciuto distacco la lotta degli uomini per i beni effimeri (la ricchezza, la politica). Poi c’è un abbassamento di tono, con l’invettiva contro gli errori degli uomini, stemperato dalla visione quasi “idillica” della vita secondo natura, dei piaceri moderati, dell’amicizia.
  • PROEMIO AL V LIBRO:
    Viene ripetuto quasi parola per parola un pezzo del libro I che contiene le dichiarazioni di poetica di Lucrezio. E’ un segno evidente del carattere incompiuto del poema.


Finali in “crescendo”:
i finali non appaiono come nettamente distinti dalla narrazione, come i proemi, ma culminano con un “crescendo” che si sviluppa mano a mano che il libro procede.

  • FINALI LIBRI I-IV:
    Nel finale dei libri I e II si invita l’uomo a elevarsi a contemplare l’universo formato da molteplici mondi governati dalla natura, e non da un Dio.
    Nei libri III e IV ci sono invece problemi etici (timore della morte/passione dell’amore).
  • FINALE V LIBRO:
    E’ dedicato alla storia del genere umano e alle origini della civiltà ed è collegato al proemio del libro VI, che celebra Atene come culmine della civiltà, ed Epicuro come sua massima gloria.
  • FINALE VI LIBRO:
    E’ l’orribile immagine della peste di Atene, in netto contrasto con la celebrazione della città nel proemio dello stesso libro. Viene così sottolineata la degenerazione culturale e l’inutilità del progresso: per vivere sereni bisogna accettare con sottomissione le leggi della natura.
    Questo tragico finale si contrappone all’Inno a Venere iniziale, dove la divinità incarnava la VOLUPTAS.
    Alcuni però ritengono che l’opera non fosse compiuta, infatti non è concluso il progetto di parlare della sede degli dei, espresso nel libro V.

I finali spesso esprimono l’amarezza per la vita condotta senza la “VERA RATIO” della dottrina epicurea, che è invece celebrata con entusiasmo nei proemi.
Il finale è inoltre un “trionfo della morte”, contrapposto al rinvigorire della natura di Venere, ed esprime la volontà di Lucrezio di descrivere la natura in tutti i suoi aspetti e di non giustificarla, narrando senza possibilità di conciliazione anche i suoi orrori.
Ciò sembra scontrarsi con l’intento rasserenatore che Lucrezio si era prefisso di perseguire.
Forse la visione negativa di Atene rappresenta gli uomini persi prima della luce di Epicuro, ma ciò sembra essere riduttivo e poco logico.

PENSIERO

LA POESIA VISIVA DI LUCREZIO:
Per spiegare casi e complessi concetti astratti, Lucrezio ricorre spesso all’analogia e riempe il poema di varie immagini tratte dalla vita quotidiana (la sensazione della nebbia, di una piuma o di una zanzare sulla pelle, il cielo riflesso in una pozzanghera, lo scintillio degli eserciti e i vari panorami).
Il suo abbandono a certe suggestioni appare a volte prevalente sulla stessa organizzazione logica dell’opera ed è stato spesso spiegato con la follia del poeta.
In realtà Lucrezio fa uso di questo espediente retorico, quasi come un oratore, per coinvolgere il lettore non solo sul piano razionale, ma anche su quello emotivo.

CRITICA ALLA RELIGIO E AI VALORI TRADIZIONALI:
La dottrina materialistica esposta da Lucrezio poteva apparire “empia” ai tradizionalisti romani. Per questo il poeta ne dà una giustificazione nel proemio del I libro, dove, citando il sacrificio di Ifigenia, Lucrezio accusa la “religio di essere portatrice di inutili affanni per l’uomo, addirittura capace di spingerlo ad azioni disumane. Eliminando la credenza di una vita oltre la morte, non si dovranno più temere pene eterne.
La critica corrosiva di Lucrezio attacca anche quei riti “civili” di religione di cui ci si serviva soprattutto per marcare le differenze tra i cittadini e che, invece, in quello stesso tempo erano difese sia da Varrone che da Cicerone, che vi vedevano un indispensabile strumento di coesione sociale.

IL TIMORE DELLA MORTE:
Lucrezio sa che la paura della morte è radicata nell’uomo ancor prima che nasca il timore a causa delle minacce della religione: la morte è ignoto che spaventa e tormenta. A causa di questo tormento l’uomo è spinto a cercare di conquistarsi spazi prestigiosi e glorie effimere che lo mettono in vane lotte con i suoi simili.
In questa critica non possiamo non ritrovare riferimenti alla corruzione dei ceti aristocratici del tempo, anche se Lucrezio si rivolge all’uomo in generale.
Ne descrive il TAEDIUM VITAE, che spinge sempre a cercare nuovi averi ed esperienze, da abbandonare subito dopo averle ottenute, perché non ne siamo mai appagati.
La morte è descritta da Lucrezio con il vero e proprio disfacimento del corpo, immagine che Epicuro aveva affrontato in modo meno “carnale” e più scientifico e materiale. Lucrezio insiste su come la morte ci faccia dissolvere per sempre e non vi sia nient’altro oltre.
L’uomo quindi non deve darsi pensiero di cosa sarà poi, come deve ignorare ciò che c’era prima. Si nega ogni tipo di continuità storica e si sminuiscono con fermezza quelle figure che i romani, per tradizione, consideravano “grandi”. La morte di Scipione ad esempio viene paragonata a quella di qualsiasi schiavo sconosciuto.

LA STORIA DEL GENERE UMANO:
Nel V libro Lucrezio paragona le guerre degli uomini del suo tempo a una tremenda lotta a cui partecipano tutti gli animali (orsi, cinghiali) e che rappresenta la bestialità terribile a cui si è ridotto l’uomo. Lotta improbabile che si immagina realmente avvenuta.
L’origine dell’uomo viene spiegata in termini materialistici come discendenza dagli animali e da un originario stato di semi-ferinità che, suppur ricco dei suoi difetti, Lucrezio guarda con nostalgia.
Il progresso, infatti, da una parte migliora le condizioni di vita dell’uomo, dall’altra fa nascere in lui il timore religioso e i bisogni non naturali.
I motori del cambiamento non sono di natura divina, ma lo sono bensì il CASO e i BISOGNI NATURALI.

IL PARADOSSO DELLA DIMENSIONE EROTICA:
Lucrezio presenta la sessualità come bisogno naturale che andrebbe appagato liberamente, come poteva accadere appunto nello “stato di natura”. Il tema è affrontato nel IV libro. Lucrezio critica la limitazione della LIBIDO verso un unico oggetto del desiderio e critica aspramente, parodiandoli, i temi d’amore tradizionali e i neoterici, le cui donne erano venerate e predilette. Il ridurre il sentimento erotico alla sla passione sembra però impossibile e molto problematico.
Da un lato quindi Lucrezio si accosta alla visione più tradizionale dei romani, schierandosi contro i neoteroi, dall’altro ribalta anche la sua concezione epicurea: alla fine del IV libro si auspica un rapporto duraturo, “razionale”, capace di prescindere dall’elemento puramente passionale.

“PESSIMISMO” E “ANGOSCIA”:
In Lucrezio abbondano immagini tragiche, disastri naturali, distruzione e morte. Vi sono anche immagini di vivo entusiasmo, tuttavia sembra dominare un senso di sfiducia verso gli stessi rimedi che vengono proposti. La natura è MATRIGNA che non ascolta i lamenti dell’uomo, un essere impotente i cui lamenti sono paragonati a vagiti. Egli deve accettare le leggi della natura e cercare, quanto più può, di sottostare e accettarle per vivere in pace.
Il finale del VI libro presenta la follia di uomini ridotti a figure allucinate di paura e di morte, che lottano come bestie per dar sepoltura ai corpi dei loro cari uccisi dalla peste e quindi ormai del tutto insensibili.

STILE E LINGUA

Lucrezio ha uno stile solenne, rigoroso e severo, mai veramente ampolloso, per cui attinge all’epos di Ennio e al ricco patrimonio di figure di suono della poesia arcaica.
Non sono estranei spunti alessandrini, ad esempio la ricerca di una poesia perfettamente adatta al tema filosofico da tradurre.
Il tema stesso ci riporta i primi poeti-filosofi greci, come Parmenide e soprattutto Empedocle. Lucrezio si trova a fare i conti con la povertà del linguaggio latino e, come farà poi Cicerone riscuotendo una grande eco tra i posteri, conia nuovi termini e prende numerose parole direttamente dal greco, e privilegia in questa operazione ricerche di onomatopee e spiegazioni etnografiche che potremmo avvicinare a quella della scuola di Pergamo: la corrispondenza tra realtà e linguaggio.

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